Età moderna

L'Età moderna è una delle età storiche della periodizzazione tradizionale della storia dell'umanità (Preistoria, Età antica, Medioevo, Età moderna e Età contemporanea); abbraccia un arco temporale di circa tre secoli, compreso tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI secolo sino alla fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo.

Il più comune evento preso come simbolico inizio del periodo è la scoperta europea dell'America da parte di Cristoforo Colombo (1492), scelto per le conseguenze a livello planetario che ne seguirono; l'inizio dell'Età moderna, inoltre, ha date diverse in alcune aree culturali asiatiche. Come evento che segna la fine dell'Età moderna, usualmente si indica l'inizio della Rivoluzione francese (1789), anch'esso per le conseguenze che man mano interessarono tutti i continenti. Esistono comunque proposte che indicano altre date di inizio e di fine: sui limiti cronologici dell'età esiste un dibattito, come è normale in qualsiasi periodizzazione convenzionale.

Tra i caratteri che contraddistinguono l'Età moderna, uno dei più importanti è l'avvio di una diffusa globalizzazione, dovuta alla Rivoluzione geografica: continenti che erano rimasti reciprocamente isolati entrarono in contatto, man mano sempre più stretto; questo fenomeno è saldamente collegato all'inizio del colonialismo europeo. La prima colonizzazione fu quella dell'America, che è alla base della catastrofe demografica dei nativi americani e della tratta atlantica di milioni di africani ridotti in schiavitù. Successivamente, alcuni paesi europei fondarono i primi avamposti commerciali in Asia e Africa. Un effetto indiretto di ciò fu la diffusione del cristianesimo nel mondo. Negli stessi decenni, l'Impero ottomano conquistò l'Europa sudorientale e parti dell'Asia occidentale e del Nord Africa, e la Russia si espanse verso est, raggiungendo la costa del Pacifico nel 1647.

Altri eventi che caratterizzano l'Età moderna sono l'inizio della Rivoluzione industriale, la Rivoluzione scientifica basata sul metodo sperimentale, la diffusione dell'Illuminismo che poi sfocerà nella Rivoluzione francese, un progresso tecnologico sempre più rapido, una politica civile secolarizzata, l'affermazione della teoria economica del mercantilismo e, infine, l'emergere degli Stati-nazione; tutti questi processi troveranno poi sviluppo nella successiva Età contemporanea.

In quest'età, l'Europa occidentale superò ampiamente la Cina in termini di tecnologia e ricchezza pro capite; il fenomeno è detto "grande divergenza". Contemporaneamente, nel mondo islamico, potenze come gli Imperi ottomano, suri, safavide e Moghul crebbero in forza. In particolare nel subcontinente indiano, l'architettura, la cultura e l'arte Mughal raggiunsero il loro apice, mentre si ritiene che l'impero stesso godesse della più grande economia del mondo, più grande di quella dell'intera Europa occidentale, segnando il periodo di protoindustrializzazione. Varie dinastie cinesi e shogunati giapponesi controllavano l'Estremo Oriente. Nel XVI secolo, l'economia cinese, sotto la dinastia Ming, e quella indiana, con l'Impero Moghul, furono avvantaggiate dal commercio con portoghesi, spagnoli e olandesi, mentre il Giappone fu impegnato nel cosiddetto commercio Nanban, dopo l'arrivo dei primi portoghesi durante il periodo Azuchi-Momoyama.

L'Età moderna è contraddistinta anche dall'allontanamento dai modi di organizzazione medievali, sia politicamente sia economicamente: il feudalesimo declinò e la Riforma protestante ruppe l'unità religiosa dell'Europa occidentale. Ne conseguirono disastrose guerre di religione in Europa, compresa la Guerra dei trent'anni; la chiesa cattolica reagì allo scisma attraverso la Controriforma.

Periodizzazione

Lo stesso argomento in dettaglio: Periodizzazione.

Inizio

L'inizio dell'Età moderna è usualmente indicata nel 1492, anno della scoperta europea dell'America, in seguito al primo viaggio di Cristoforo Colombo; tale evento, infatti, ebbe un impatto planetario su tutto il successivo corso della Storia, dato che segnò l'inizio della colonizzazione europea nel mondo e dei contatti tra vari continenti che erano rimasti sempre reciprocamente isolati.

Alcuni storici hanno proposto come date alternative la caduta di Costantinopoli (1453), conquistata dai turchi ottomani; l'inizio della Riforma protestante (1517), l'inizio del Rinascimento europeo o di quello timuride in Asia centrale, le conquiste musulmane nel subcontinente indiano. Ad ogni modo, non vi è dubbio che il passaggio tra XV e XVI secolo coincise con un cambiamento che riguardò praticamente tutti gli aspetti della vita[1].

In alcune aree asiatiche, l'inizio dell'Età moderna ha date diverse dal 1492, tutte basate sulla fine della società medievale. Si elencano di seguito tali date:

  • Giappone: nel 1603, inizio del periodo Azuchi-Momoyama, durante il quale ci fu la riunificazione dell'Impero Giapponese[2];
  • Corea: nel 1392, con l'ascesa della dinastia Joseon[senza fonte];
  • Cina: nel 1368, con l'avvento della dinastia Ming[3];
  • India: nel 1707, inizio della disgregazione dell'Impero Moghul e della penetrazione britannica[4];
  • Persia: nel 1502, con l'ascesa della dinastia Safavide, di lingua e cultura turca[5].

Fine

La fine dell'Età moderna è segnata dallo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, per le conseguenze che ebbe in tutte le società e in tutte le culture del pianeta, nonostante la violenza che essa ha comportato: gli ideali rivoluzionari esposti nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, hanno improntato le vicende e il sentire di tutta la successiva Età contemporanea[6].

Come data alternativa è stato proposto l'anno 1815, quello del Congresso di Vienna, che sancisce formalmente la fine dell'epoca rivoluzionaria e napoleonica, senza però poterne cancellare le idee e i valori che si erano ormai diffusi in Europa e nel giro di qualche decennio, anche nel resto del mondo[6]. Altri indicano come evento alternativo la Rivoluzione industriale (1769).

L'Europa nel primo periodo moderno

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia d'Europa.

Società, cultura e politica all'inizio della modernità

Lo stesso argomento in dettaglio: Umanesimo e Rinascimento.
Una pagina della Bibbia di Gutenberg del 1455

A partire dall'inizio dell'Età moderna la popolazione europea tornò a crescere, in particolare nei centri urbani, dopo un secolo di crisi. Ciò inevitabilmente provocò un incremento della domanda di beni di prima necessità facendone crescere i prezzi mentre la moneta perderà di valore per le ingenti importazioni di metalli che in breve tempo giungeranno dalle nuove terre scoperte. Tutto ciò non venne compensato dalle aziende agricole, che si trovavano ancora in uno stato di arretratezza mentre la vita dei contadini era assai variabile: se da una parte alcuni di loro vivevano una situazione di pura sussistenza, altri godevano di un benessere giunto grazie a un ancora incerto processo di mobilità sociale.[7]

Fu proprio l'aumento di coloro in grado di disporre di una certa capacità di acquisto a spingere il settore manifatturiero. Nel XVI secolo, infatti, si assistette a un incremento della produzione di beni, soprattutto tessili, non di esclusiva utilità, ma sempre più orientati verso il lusso. I ceti più abbienti iniziarono ad abbellire le proprie dimore con oggetti sfarzosi come segno della propria affermazione mentre le famiglie altolocate facevano edificare sontuose cappelle nelle chiese chiamando affermati artisti affinché le decorassero. Così si diffuse la pratica del mecenatismo che raggiunse il suo massimo nelle ricche e sfarzose corti dei principi italiani che divennero un punto di riferimento vitale per i migliori pittori, scultori, architetti del tempo, un elemento determinante del Rinascimento.[8]

Il XV secolo è attraversato da importanti cambiamenti culturali: l'ottimismo, la fiducia nell'uomo e nelle sue possibilità, il principio della "virtù" umana contrapposta al "fato" sono manifestazioni filosofiche e letterarie di un periodo noto col nome di Umanesimo. Tra tutti gli umanisti del periodo spicca la figura di Erasmo da Rotterdam, un sicuro punto di riferimento per buona parte dell'intellettualità europea. La scoperta di codici letterari in latino e in greco e il contemporaneo arrivo di numerosi intellettuali bizantini scampati alla conquista ottomana di Costantinopoli contribuirono a portare alla riscoperta di buona parte della letteratura latina e greca, insieme alla diffusione fra gli intellettuali dello studio della lingua greca, favorito dalla presenza dei dotti bizantini in arrivo dall'Oriente, fino ad allora mai condotto in Occidente a un tale livello sia qualitativo che quantitativo. Significativi progressi vengono fatti anche nel campo della filologia e della storiografia. La diffusione dei nuovi modelli culturali, che superavano le oramai sterili dispute della scolastica medievale, venne aiutata enormemente grazie all'introduzione, nel 1455, della stampa a caratteri mobili, per opera del tedesco Johannes Gutenberg. Con l'invenzione della stampa fiorirono le prime editorie, in particolare nella penisola italiana, dove è celebre la stamperia veneziana di Aldo Manuzio.[9][10]

Il quadro politico dell'Europa del XVI secolo era piuttosto variegato ma in linea generale vi erano dei sovrani a cui si affiancava un'assemblea rappresentativa che ne limitava il potere soprattutto in ambito tributario. In Germania, cuore del Sacro Romano Impero, l'imperatore, secondo quanto stabilito nella bolla d'oro del 1356, veniva eletto da sette principi elettori a carica ereditaria. Questi elettori rappresentavano le centinaia di piccoli Stati e città in cui il territorio era diviso, ognuno dei quali autonomo e soggetto al solo imperatore. Infine, tutte le entità politiche esistenti si riunivano in un'assemblea, convocata dall'imperatore al bisogno, detta "dieta imperiale".[11] Anche in Spagna, nonostante che i regni cristiani avessero completato la Reconquista ai danni dei musulmani di al-Andalus, la geografia politica appariva alquanto frammentaria. Nel Regno di Castiglia e di Aragona, le cortes erano assemblee ove sedevano i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città.[12] Nel Regno di Francia il re era forse il sovrano europeo con maggior potere ma anch'egli era tenuto a condividere le scelte fiscali con gli Stati generali.[13]

Molti eruditi del tempo studiarono la politica a loro contemporanea; in Italia Niccolò Machiavelli descrisse la situazione degli Stati in perenne lotta tra di loro non lesinando critiche, mentre Francesco Guicciardini aprì la strada a un nuovo stile nella storiografia caratterizzato dall'uso di fonti governative a supporto delle argomentazioni e dell'analisi realistica delle persone e degli eventi del suo tempo. In Francia Jean Bodin diede una nuova definizione del monarca sostenendo che a lui fosse concesso di "fare e disfare" le leggi a suo completo piacimento in quanto il suo potere era al di sopra di esse, una teorizzazione che anticipava l'assolutismo monarchico[14][15]

Evoluzione nel modo di fare la guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Fortificazione alla moderna, Lanzichenecchi e Tercio.
Cittadella di Jaca (Spagna), tipico esempio di fortificazione all'italiana

Col passaggio dall'Età medievale all'Età moderna vi furono progressivamente varie evoluzioni in campo militare che cambiarono radicalmente il modo di fare la guerra, esse furono[16]:

  • importante sviluppo dell'artiglieria e conseguente nascita delle fortificazioni all'italiana con mura basse e spesse (più resistenti ai colpi dei cannoni) e altre caratteristiche che le differenziano molto da castelli e fortificazioni medievali[16].
  • declino della cavalleria pesante che fu sostituita soprattutto dalla fanteria e in parte minore dalla cavalleria leggera (quest'ultima venne usata perlopiù come unità ausiliaria per le scorrerie)[16].
  • nascita di due nuovi tipi di unità militari, i lanzichenecchi (o falange svizzera, organizzati in quadrati di 6000 uomini armati di picca lunga) e i tercio spagnoli (organizzati in unità da 3000 uomini con picchieri e archibugieri, successivamente moschettieri)[16].
  • aumento numerico degli effettivi all'interno degli eserciti, con conseguente aumento delle spese belliche che causarono la necessità di riformare le finanza e che segnò l'ascesa delle grandi monarchie (le uniche a potersi permettere grosse spese)[16].
  • declino dell'importanza della nobiltà in guerra[16].
  • declino dell'uso di galee in favore dei velieri.

Esplorazioni e imperi coloniali

Lo stesso argomento in dettaglio: Età delle scoperte, Colonizzazione europea delle Americhe, Impero portoghese e Impero spagnolo.
L'arrivo di Colombo a San Salvador

Nella seconda metà del XV secolo vengono realizzate importanti esplorazioni geografiche. I portoghesi giungono al capo di Buona Speranza nel 1487 con Bartolomeo Diaz, per poi "doppiare" il continente africano nel 1497 con Vasco da Gama. Cinque anni prima Isabella di Castiglia finanziò una spedizione marittima che, secondo le idee del genovese Cristoforo Colombo, avrebbe dovuto raggiungere la Cina ma finì per scoprire un nuovo continente: l'America. Il Nuovo Mondo fu poi meta di altre spedizioni che ne approfondirono la conoscenza, come quelle di Giovanni Caboto (1497), Amerigo Vespucci (1512) e Giovanni da Verrazzano (1524). Nel frattempo, nel 1519, la spedizione di Ferdinando Magellano aveva effettuato la prima circumnavigazione del globo terrestre.[17]

Grazie a tali spedizioni gli europei entrarono in contatto con nuove culture e sistemi politici, e contestualmente ebbe inizio il progressivo spostamento degli equilibri politici e commerciali dal mar Mediterraneo all'oceano Atlantico. I protagonisti di questa prima fase di espansione coloniale furono il Regno del Portogallo e la Spagna, tanto che il trattato di Tordesillas divise il mondo al di fuori dell'Europa tra loro.[18][19]

Quest'ultima, in particolare, iniziò a creare un vero e proprio impero, aprendo la stagione dei conquistadores che, in successive spedizioni, polverizzano l'Impero azteco e quello inca, sottomettendo gran parte delle popolazioni indigene del Sud America. Le colonie spagnole, differentemente dal modello portoghese, si basarono sulla conquista territoriale e sullo sfruttamento agricolo e minerario, affidato all'istituzione dell'Encomienda. Vengono intraprese politiche di conversione e di europeizzazione forzata della popolazione, non di rado caratterizzate da violenze e, in occasione delle conseguenti ribellioni, da veri e propri massacri. La scoperta e la messa in sfruttamento di molte miniere generò un enorme afflusso di capitali verso la Spagna che produce effetti destabilizzanti per l'economia europea, soggetta a una crescente inflazione.[20][21]

La Riforma protestante e la Controriforma

Lo stesso argomento in dettaglio: Martin Lutero, Riforma protestante, Controriforma e Concilio di Trento.
Martin Lutero illustra le sue 95 tesi appena affisse

Alla fine del XV secolo la Chiesa viveva una profonda crisi morale, spirituale e di immagine. Nel Papato e nell'alto clero questa crisi si manifestava con l'assunzione di pratiche e comportamenti che niente avevano a che vedere con la fede. La prima preoccupazione dei papi era la difesa strenua del proprio Stato, con continue guerre che dissanguavano le economie dello Stato Pontificio, e la preoccupazione di arricchire sé stessi più che difendere la religione. Il nepotismo era diffuso a tutti i livelli, a cominciare dai papi. La consuetudine di accumulare i benefici ecclesiastici (con le rendite a essi connessi) era pratica comune. Il basso clero, pochissimo istruito e senza alcuna preparazione specifica, viveva come poteva e contribuiva a fare della religione un insieme di pratiche più vicine alla superstizione che alla fede.[22][23]

Già da molto tempo all'interno della stessa Chiesa si avvertiva la necessità di una riforma, ma il punto di svolta si ebbe quando il monaco e professore di teologia tedesco Martin Lutero rese pubbliche nel 1517 le sue 95 tesi, in cui condannava la frequente pratica della vendita delle indulgenze. Aiutate dalla recente introduzione della stampa, le tesi ebbero una vastissima e rapida diffusione in tutta Europa dando inizio alla riforma protestante. Lutero e i suoi seguaci non si limitarono a criticare l'atteggiamento troppo terreno della Chiesa, ma ne misero in discussione anche alcuni principi dottrinali proponendo una teologia diversa riassumibile nelle Cinque sola. Lutero venne condannato da papa Leone X e bandito dall'Impero dalla dieta di Spira del 1526, ma trovò protezione nel principe Federico il Saggio. La riforma ebbe così anche connotati politici dividendo la Germania tra principi protestanti e principi cattolici che si fronteggiarono fino a prendere le armi nella guerra di Smalcalda.[24]

Papa Paolo III ha una visione del concilio di Trento

La Riforma non coinvolse solamente la Germania: le idee riformistiche si affermarono infatti anche in altri territori. A Ginevra il teologo Giovanni Calvino perfezionò lo zwinglianesimo, fondando una propria dottrina protestante: il calvinismo. Non mancarono movimenti più radicali che, trovando alimento nelle tensioni sociali, causarono sanguinose sommosse come la rivolta dei contadini.[25] Nel Regno di Francia il protestantesimo fu causa di guerre di religione che imperversarono per tutta la seconda metà del XVI secolo.[26] Come risposta, la Chiesa cattolica indisse nel 1545 il concilio di Trento che, sebbene non riuscì nell'intento di ripristinare l'unità religiosa in Europa oramai definitivamente compromessa, dette inizio alla controriforma, ovvero un insieme di misure di rinnovamento spirituale, teologico, liturgico che contraddistinsero il cattolicesimo in Età moderna.[27]

L'impero di Carlo V e le guerre d'Italia

Lo stesso argomento in dettaglio: Carlo V d'Asburgo e Guerre d'Italia del XVI secolo.
L'imperatore Carlo V in un dipinto di Tiziano

La pace di Lodi del 1454 aveva dato vita a un periodo di pace in Italia, sebbene alquanto instabile. Solo mezzo secolo dopo, infatti, alla morte di papa Innocenzo VIII e di Lorenzo de' Medici, la situazione precipitò. Complici le mire dei principi stranieri sugli Stati italiani, l'aspirazione della Repubblica di Venezia ad ampliare i propri domini di Terraferma e le ambizioni di potere di papa Alessandro VI e del duca di Milano Ludovico il Moro, a partire dalla fine del XV secolo iniziarono una serie di conflitti che sconvolsero la penisola con il loro seguito di distruzioni, epidemie e saccheggi. La stagione venne inaugurata nel 1494 con la discesa del re francese Carlo VIII, con l'obiettivo di conquistare il Regno di Napoli, spedizione che tuttavia terminò con un insuccesso delle armate francesi.[28][29]

Le guerre in Italia vennero continuate dal successore di Carlo, il nipote Luigi XII di Francia, arrivando a una situazione di stallo dopo una serie di conflitti e cambiamenti di alleanze. La situazione si acuì quando nel 1515 salì sul trono francese l'ambizioso Francesco I, seguito l'anno seguente su quello spagnolo da Carlo V d'Asburgo. Il primo atto dei difficili rapporti tra i due sovrani si ebbe nella corsa all'elezione a imperatore del Sacro Romano Impero vinta poi da Carlo grazie ai finanziamenti dei ricchissimi banchieri Fugger. In questo modo, Carlo si trovò a essere il sovrano di un immenso territorio che comprendeva l'Impero spagnolo con le sue colonie americane, i Paesi Bassi asburgici, il Ducato di Borgogna, l'Arciducato d'Austria e il Sacro Romano Impero. Come imperatore, Carlo si sentì investito del ruolo di guida di tutta la cristianità e su questa visione incentrò tutta la sua politica interna ed estera dovendo, pertanto, ricorrere a numerosi interventi militari e far fronte a ingentissime spese che causarono malcontenti.[30][31]

Il sacco di Roma raffigurato da Johannes Lingelbach

Nel prosieguo delle guerre d'Italia avvenne un fatto di grave portata: nel 1527 truppe imperiali di Carlo V, composte principalmente da lanzichenecchi di fede protestante, saccheggiarono Roma compiendo massacri nella popolazione e ingenti danni al patrimonio artistico; papa Clemente VII dovette trovare rifugio a Castel Sant'Angelo. L'evento ebbe grandi ripercussioni, non solo sulla Città Eterna ma su tutta la politica del continente; la situazione si stabilizzò nel 1530 quando il pontefice mise sul capo di Carlo la corona ferrea di imperatore e questi restituì alla Chiesa i suoi possedimenti. Tale incoronazione accrebbe il proposito dell'imperatore di essere guida della Cristianità e di proteggerla dalla riforma protestante oltre che dalla minaccia dell'Impero ottomano che aveva già conquistato il Regno d'Ungheria fermandosi solo nel 1529 dopo aver tentato di assediare Vienna.[11]

L'Italia alla fine delle guerre del XVI secolo

Nel 1555, all'età di 55 anni, Carlo V decise di abdicare dividendo i suoi possedimenti tra due successori: al fratello Ferdinando I d'Asburgo cedette la corona imperiale e i territori della Monarchia asburgica (dando origine al ramo degli Asburgo d'Austria), mentre al figlio Filippo vennero consegnate le corone di Spagna, Castiglia, Sicilia e delle Nuove Indie a cui seguirono anche quelle dei Paesi Bassi e della Franca Contea (ramo degli Asburgo di Spagna). Fu proprio quest'ultimo che contribuì a mettere fine alle guerre d'Italia firmando nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis con Elisabetta I d'Inghilterra ed Enrico II di Francia. Con questo trattato tutti gli Stati italiani persero la loro autonomia ed entrarono nell'orbita della Spagna, chi direttamente come il Ducato di Milano, lo Stato dei Presidi, il Regno di Napoli, di Sicilia e di Sardegna che divennero parte della corona spagnola governati da viceré o governatori; chi indirettamente, come lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana o la Repubblica di Genova. La Repubblica di Venezia fu l'unica a mantenere la propria indipendenza anche se dovrà scendere a patti con la Spagna per poter continuare la guerra contro gli Ottomani nel Mediterraneo.[32][33][34]

Espansionismo ottomano

Lo stesso argomento in dettaglio: Impero ottomano ed Espansione dell'Impero ottomano.
Il sultano Solimano il Magnifico avanza nella battaglia di Mohács

Dopo aver preso Costantinopoli nel 1453 i turchi ottomani continuarono la loro espansione arrivando a conquistare anche la Siria e l'Egitto. L'apice dell'impero si ebbe durante il regno del sultano Solimano il Magnifico iniziato nel 1494. Istanbul, il nuovo nome di Costantinopoli, sotto Solimano divenne una città più popolosa di qualsiasi altra europea e nel contempo si dotò di grandiose opere architettoniche progettate dall'architetto Sinān. Solimano è ricordato soprattutto per la sua attività legislativa, promuovendo la realizzazione di un codice di leggi, e per le sue imprese militari che condusse instancabilmente per tutta la vita; celebre la sua vittoria nella battaglia di Mohács del 1526, nella quale sbaragliò le truppe cristiane conquistando il Regno d'Ungheria e aprendosi la strada verso Vienna che assedierà nel 1529 senza però riuscire a prenderla. Negli stessi anni, il suo ammiraglio Khayr al-Dīn Barbarossa conquistava Algeri e Tunisi facendone dei covi per i pirati barbareschi che da lì si spingevano fino a razziare le coste italiane e spagnole. Solimano non tralasciò nemmeno la frontiera orientale con l'impero safavide, avversario anche sulla dottrina religiosa in quanto sciita.[35][36]

Con Solimano gli Ottomani, dunque, arrivarono a rappresentare una reale minaccia per l'Europa cristiana. Carlo V rispose nel 1535 con una campagna di successo contro i pirati, mentre l'isola di Malta si distinse nel 1565 per un'eroica resistenza; ciò non riuscì a Cipro, all'epoca possedimento veneziano, che cadde tre anni più tardi. La fortemente celebrata vittoria dei cristiani riuniti nella Lega Santa voluta da papa Pio V nella battaglia di Lepanto del 1571 non servì a fermare l'espansionismo turco nel Mediterraneo e nei Balcani. Bisognerà aspettare il 1683, quando il fallimento nella presa di Vienna ridimensionerà le ambizioni di conquista degli Ottomani, costretti alla firma della pace di Carlowitz, sancendo di fatto il declino a cui stava andando incontro il loro impero.[37][38]

Formazione degli Stati-nazione e guerre di religione

Lo stesso argomento in dettaglio: Stato-nazione e Guerre di religione in Europa.
Equilibri religiosi in Europa alla fine del XVI secolo

Il processo già avviato nel Medioevo di formazione degli Stati-nazione ebbe il suo culmine del XVI secolo. Sotto il regno di Filippo II la Spagna raggiunse il massimo splendore, periodo conosciuto come Siglo de Oro. Tuttavia iniziarono anche a manifestarsi i primi segni di decadenza. Mancava il ceto della borghesia, fondamentale per la crescita dell'economia e le ingenti importazioni di metalli preziosi dalle colonie americane non contribuivano a far crescere l'economia del paese ma venivano utilizzate per saldare i debiti contratti con altri Stati.

Nel XVII secolo la Francia fu sconvolta da sanguinose guerre di religione che contrapposero i francesi di fede cattolica a quelli di fede calvinista, gli ugonotti. Il calvinismo fu dapprima perseguitato dal sovrano Enrico II, ma quando la corona passò alla moglie Caterina de' Medici i protestanti la politica mutò. Questo provocò un grosso malcontento tra le file cattoliche che per diversi anni fecero guerra ai calvinisti. La pace venne raggiunta solo dopo l'incoronazione di Enrico IV che con l'editto di Nantes nel 1598 consentì a tutti i francesi la libertà di culto.[39]

La regina Elisabetta I d'Inghilterra

Dopo la travagliata guerra delle due rose, l'Inghilterra durante il XVI secolo fu relegata a un ruolo marginale, dovuto anche alla debolezza militare e allo scisma anglicano, voluto da re Enrico VIII, che divise la chiesa inglese da quella cattolica. Il distacco da Roma venne portato a termine sotto il lungo e prospero regno di Elisabetta I d'Inghilterra (1558-1603) che attuò una violenta repressione contro i cattolici arrivando a mettere a morte la cugina Maria Stuart. L'esecuzione di Maria aggravò i rapporti con la cattolicissima Spagna; nel 1570 una flotta di corsari inglesi cominciò ad attaccare e a depredare le navi spagnole. Nel 1588 una potente flotta spagnola, l'Invincibile Armata, attaccò il regno ma fu sconfitta e in gran parte distrutta: per la Spagna si trattò di una sconfitta gravissima mentre l'Inghilterra si avviò a diventare una forte potenza marittima. Alla morte di Elisabetta I, dato che non era sposata e non aveva figli, la corona passò alla famiglia degli Stuart.[40]

All'epoca di Filippo II di Spagna i domini olandesi erano suddivisi in diciassette Province. Per secoli le civiltà fiamminghe e olandesi si erano governate autonomamente e avevano goduto di un solido sviluppo economico. Il Re di Spagna impose sulla popolazione il cattolicesimo, provocando un grande malcontento soprattutto da parte di tutti i calvinisti, che nel 1566 diedero vita a una riforma antispagnola. La Spagna, cercando di riaffermare la propria autorità, fece una violenta repressione e impose un maggior controllo anche sull'attività urbana. Ma a questo suscitò la ribellione anche dei cattolici che temevano di perdere la libertà cittadina. Si unirono così nel 1576 ai calvinisti per una ribellione e firmarono un patto di unione nazionale.

Lo zar Ivan IV di Russia

Anche la Polonia, dopo aver raggiunto il proprio apogeo politico-economico tra Quattrocento e Cinquecento, inizia ad attraversare un lento declino, che porterà alla scomparsa del regno per l'ingerenza delle confinanti potenze europee (Prussia, Austria e Russia). Nell'Età moderna in Scandinavia si smembra l'Unione di Kalmar e sorgono la Svezia e la Norvegia, mentre la Finlandia rimane sotto il governo svedese. In seguito la Norvegia viene conquistata dai danesi e la zona degli attuali Paesi baltici (sotto il governo svedese) viene conquistata dai russi. Infine, in Russia, dopo una lunghissima lotta contro i Mongoli Ivan il Terribile giunge all'indipendenza e si autoproclama Zar. Dopo la sua morte segue un periodo di disordini politici.

Ma la formazione degli Stati non fu un fenomeno che coinvolse tutta la popolazione europea. Nel Sacro Romano Impero, ormai tramontata l'idea di un impero universale europeo, il territorio continuò a essere diviso in centinaia di regnicoli. Essi erano divisi anche sulla fede religiosa, chi di confessione cattolica, chi protestante e non mancarono gravi scontri armati tra i due schieramenti, come la già ricordata guerra di Smalcalda. La, seppur momentanea, pace venne trovata con il trattato di Augusta del 1555 che, tuttavia, sanciva la divisione di fatto del regno secondo il principio Cuius regio, eius religio.[41] Anche l'Italia, uscita devastata e posta in gran parte sotto il dominio spagnolo, non riuscì ad affermare la propria identità nazionale perseverando nella sua frammentaria geografia politica.[42]

 

L'Asia tra il XVI e il XVIII secolo

Cina: dinastie Ming e Qing

Lo stesso argomento in dettaglio: Dinastia Ming e Dinastia Qing.
L'imperatore Wanli della dinastia Ming

Durante l'era della dinastia Ming, al potere tra il 1368 e il 1644, la Cina era il paese più avanzato nella matematica e nelle scienze, tuttavia ben presto venne raggiunta e superata dagli europei.[43] Gli storici hanno proposto diversi motivi per tale rallentamento tra cui l'incapacità di capitalizzare i suoi primi vantaggi e la mancanza di una "rivoluzione scientifica" a causa della difficoltà a superare le tradizioni confuciane.[44]

Nei primi decenni sotto i Ming, l'urbanizzazione del paese aumentò man mano che la popolazione cresceva e la divisione del lavoro diventava più complessa. Anche i grandi centri urbani, come Nanchino e Pechino, contribuirono alla crescita dell'industria privata. In particolare si affermarono le industrie di piccola scala, spesso specializzate in oggetti di carta, seta, cotone e porcellana. Tuttavia la maggior parte della Cina era composta da centri urbani relativamente piccoli dotati di propri mercati. Durante il XVI secolo fiorì il commercio via mare con l'Impero portoghese, spagnolo e olandese. Tali scambi fecero giungere un'enorme quantità di argento, di cui la Cina all'epoca aveva un disperato bisogno in quanto il suo precedente sistema basato sulla moneta cartacea era da tempo andato in crisi per colpa di una fortissima inflazione.[45][46]

L'eccessivo lusso e decadenza dei costumi caratterizzarono gli anni tra il XVI e il XVII secolo, gli ultimi della dinastia Ming

Successivamente, con il declino della dinastia, la Cina tornò a isolarsi volontariamente.[47] Nonostante le politiche isolazioniste, l'economia soffrì ancora di una forte inflazione dovuta a una sovrabbondanza di argento spagnolo che entrava nella sua economia attraverso nuove colonie europee come Macao.[48] Inoltre il paese dovette affrontare dure e costose guerre, seppur vittoriose, per proteggere la penisola coreana dai tentativi di invasione giapponesi.[49] La crisi commerciale che colpì l'Europa intorno al 1620 fece sentire i suoi negativi effetti sull'economia cinese.[50] La situazione fu ulteriormente aggravata da un periodo climatico non favorevole per l'agricoltura, dal verificarsi di calamità naturali e da improvvise epidemie. Un tale drammatico scenario aveva fortemente indebolito l'autorità del governo, così nel 1644 la dinastia Ming lasciò il posto, dopo un breve periodo di transizione dominato dal ribelle Li Zicheng, alla dinastia Qing che fu l'ultima a governare sulla Cina imperiale.

Shogunati giapponesi

Lo stesso argomento in dettaglio: Periodo Sengoku, Periodo Azuchi-Momoyama e Periodo Edo.
Rappresentazione delle battaglia di Sekigahara, uno degli eventi più significativi della storia del Giappone

All'inizio dell'Età moderna il Giappone era governato da un sistema di tipo feudale. L'imperatore, a cui erano attribuite qualità semi-divine era formalmente al vertice dell'organizzazione gerarchica ma il vero potere si trovava nelle mani dello Shōgun, una carica, divenuta nel tempo ereditaria, che assumeva su di sé le prerogative di capo militare e di primo ministro. Sotto di loro vi erano i signori feudali, chiamati Daimyō, che controllavano con potere assoluti le province a loro assegnate disponendo del servizio della casta guerriera dei samurai sostanzialmente equivalente a quella della cavalleria medievale europea.[51] Questo era l'assetto del Giappone quando, nel 1467, iniziò il cosiddetto "periodo Sengoku", caratterizzato da vasta crisi politica in cui i piccoli feudi si trovavano costantemente in guerra tra loro. Intorno alla metà del XVI secolo i giapponesi entrarono in contatto con i portoghesi da cui adottarono molte delle tecnologie e delle pratiche culturali europee sia in campo militare (l'archibugio, armature in stile europeo, navi europee), sia religioso (cristianesimo), sia artistico e linguistico con l'integrazione di un vocabolario occidentale nella lingua giapponese.

L'autorità del governo centrale fu in gran parte ristabilita grazie a Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi che dettero inizio al periodo Azuchi-Momoyama. Sebbene venga spesso indicato il 1573 come data di inizio, in termini più ampi, la nuova era si aprì in realtà con l'ingresso di Oda Nobunaga a Kyoto nel 1568 alla guida dell'esercito allo scopo di insediare Ashikaga Yoshiaki come quindicesimo e ultimo shōgun dello shogunato Ashikaga. La battaglia di Sekigahara combattuta nel 1600 fu un punto di svolta nella storia del Giappone: l'armata orientale, guidata da Tokugawa Ieyasu, uno dei generali di Hideyoshi, si impose contro i suoi rivali del clan Tokugawa. Con tale vittoria, Ieyasu, pose la prima pietra per l'egemonia sul paese che consolidò tre anni più tardi fondando lo shogunato Tokugawa che sarà l'ultima dittatura militare a regnare sul paese garantendo un periodo di pace e stabilità politica conosciuto come "periodo Edo".[52][53]

Corea

Nel 1392, il generale Yi Seong-gye dette inizio alla dinastia Joseon grazie a con un colpo di Stato in gran parte incruento. Yi Seong-gye spostò la capitale della Corea nella sede dell'odierna Seul.[54] La dinastia fu fortemente influenzata dal confucianesimo, che svolse anche un ruolo importante nel plasmare la forte identità culturale della Corea.[55][56]

Durante la fine del XVI secolo, la Corea fu invasa due volte dal Giappone, la prima nel 1592 e di nuovo nel 1597. In entrambe le occasioni i giapponesi non riuscirono nell'impresa per via della resistenza postagli dell'ammiraglio Yi Sun-sin, il venerato comandante navale coreano, che guidò la marina coreana utilizzando avanzate navi rivestite di metallo conosciute come navi testuggine. Poiché le navi erano armate di cannoni, la marina dell'ammiraglio Yi fu in grado di demolire le flotte d'invasione giapponesi, distruggendo centinaia di navi nella seconda invasione del Giappone.[56] Durante il XVII secolo, la Corea fu nuovamente invasa, questa volta dai manciuriani, che in seguito avrebbero conquistato la Cina come dinastia Qing. Nel 1637, il re Injo fu costretto ad arrendersi alle forze Qing e gli fu ordinato di inviare principesse come concubine al principe Dorgon.[57]

L'India dei Moghul

Lo stesso argomento in dettaglio: Impero Moghul.
Babur, il conquistatore

Tra il 1451 e il 1526 il subcontinente indiano fu governato dalla dinastia Lodi, l'ultima famiglia regnante del sultanato di Delhi. L'ultimo sovrano della dinastia, Ibrahim Lodi, venne sconfitto e ucciso dall'esercito turco-mongolo di fede islamica guidato da Babur, detto il "conquistatore", nella prima battaglia di Panipat. Una volta sottomesso l'India settentrionale, Babur dette vita all'impero Moghul, destinato a governare la regione fino agli inizi del XVIII secolo arrivando a espandersi per gran parte dell'Hindustan.[58][59]

In breve, sotto i Moghul l'India divenne la più grande economia mondiale del tempo sostenuta da una vera e propria potenza manifatturiera votata in particolare alla produzione tessile.[60][61] L'apice venne raggiunto sotto il lungo regno di Akbar, detto il grande, al potere tra il 1556 e il 1605. Il sovrano perfezionò il sistema di divisione territoriale in province e distretti, già utilizzato dal XII secolo, e introdusse miglioramenti nell'apparato amministrativo e in particolare in quello della riscossione dei tributi. Sotto Akbar le città, spinte dai commerci anche internazionali, fiorirono. Si stima che in quel tempo il prodotto interno lordo del paese valesse da solo un quarto di quello mondiale e che fosse superiore a quello complessivo europeo. Anche la cultura, la letteratura e l'arte andarono incontro a un periodo particolarmente favorevole. Le più importanti opere d'architettura indiane, come il celebre Taj Mahal, furono realizzate in questo periodo.[62][63]

Il Taj Mahal, uno dei più grandi esempi di architettura del periodo Moghul

Oltre ai successi in campo economico e militare, Akbar è noto anche per gli sforzi in campo religioso in quanto fu impegnato nel far convivere le religioni maggioritarie del regno, come l'induismo professato dalle popolazioni autoctone e l'Islam proprio, invece, dei conquistatori Moghul. Le due religioni erano diversissime, dividendone i fedeli in molteplici campi che spaziavano dal culto dei morti, all'alimentazione, al diritto famigliare, causando spesso tensioni che sfociavano nel sangue. La politica di tolleranza inaugurata da Akbar venne continuata dai suoi successori fino al regno di Aurangzeb il quale, giunto sul trono nel 1658, revocò tutte le disposizioni a favore dell'induismo causando le rivolte dei guerrieri sikh. Con la morte di Aurangzeb, avvenuta nel 1707, si pone convenzionaliste la fine del "periodo classico" dell'India,[64][65] anche se la dinastia Moghul continuò a regnare per oltre un secolo. Gli anni successivi furono contraddistinti da una lenta quanto inesorabile decadenza: le spinte autonomiste delle varie regioni, i conflitti armati interni, la debolezza del potere centrale, furono tutti elementi che portarono la Compagnia britannica delle Indie orientali a penetrare sempre di più nel paese, ottenendo concessioni territoriali che un po' alla volta gli permisero di porre gran parte del subcontinente sotto il proprio dominio.[64]

Asia centrale

Tra il XVI e l'inizio del XVIII secolo, l'Asia centrale si trovava sotto il dominio degli uzbeki mentre le regioni dell'Estremo Oriente erano governate dai pashtun locali. Tra il XV e il XVI secolo, dalle steppe giunsero varie tribù nomadi, tra cui i Kipčaki, i Naiman, i Kangly, i Ongirrat e i Manghud. Questi gruppi erano guidati da Muhammad Shaybani, il Khan degli uzbeki.

Il lignaggio dei pashtun afgani risale alla dinastia Hotaki. In seguito alle conquiste musulmane arabe e turche, i pashtun ghazi (guerrieri per la fede) invasero e conquistarono gran parte dell'India settentrionale durante il periodo della dinastia Lodi e della dinastia Suri. I guerrieri pashtun invasero anche la Persia cogliendo una fondamentale vittoria nella battaglia di Gulnabad. In seguito, i Pashtun fondarono l'Impero Durrani.

America, Australia e Africa dopo l'arrivo degli europei

Planisfero di Cantino con il meridiano tracciato nel trattato di Tordesillas

Dopo l'arrivo dei primi esploratori, i primi a formare un proprio impero coloniale nelle Americhe furono gli spagnoli che si erano stabiliti prevalentemente in Messico e in Perù. I territori del nuovo mondo erano governati da viceré che rappresentavano l'autorità suprema ed erano affiancati da tribunali con potere giudiziario detti Audiencia. I viceré provenivano tutti dalla madrepatria ed erano di nomina regia. Più tardi i portoghesi consolidarono le proprie colonie nell'attuale Brasile (Colonia del Brasile) adottando un sistema amministrativo del tutto simile a quello spagnolo anche se il vicereame venne ufficialmente istituito solo nel 1714. Nella regione i portoghesi riuscirono a creare un florido sistema produttivo basato soprattutto sulle piantagioni di canna da zucchero in cui lavoravano schiavi africani giunti tramite la tratta atlantica. Non mancarono anche lo sfruttamento delle risorse minerarie e in particolare l'estrazione di metalli preziosi quali oro e argento. Altre esportazioni rilevanti furono quelle del cuoio, del cacao, del caffè, del tabacco.[66]

Lo sfruttamento da parte dei coloni della popolazione locale venne mitigata dall'arrivo dei missionari, in particolare appartenenti all'ordine dei gesuiti, che fondarono comunità, dette anche "riduzioni" in cui oltre a tentare di evangelizzare e civilizzare gli indigeni gli si offriva protezione. L'obiettivo dei missionari nel nuovo mondo fu quello di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. La maggior parte di queste comunità sorsero in Brasile, Paraguay, Argentina, Bolivia e Uruguay.[67]

Sebbene il primo europeo a scoprire l'Australia fosse stato l'olandese Abel Tasman negli anni 1640, fu solo dopo l'arrivo dell'inglese James Cook che nacque l'interesse europeo per quella terra. Prima dell'arrivo degli europei, l'Australia era abitata dagli aborigeni australiani che erano cacciatori-raccoglitori. Quando gli inglesi si stabilirono intorno al 1770 fecero dell'Australia una colonia penale dove confinare i criminali più pericolosi e recidivi. Questi vennero impiegati i lavori forzati ma, nel contempo, dettero vita a una forte comunità dotata di spirito imprenditoriale formata soprattutto dai loro discendenti.[68]

Nell'Africa subsahariana prima dell'arrivo degli europei, giunti per razziare schiavi e oro, nel primo millennio si erano formati lungo il Niger alcuni regni (Impero ashanti, regno del Benin, regno del Congo,...) la cui economia si basava prevalentemente sull'agricoltura e su scambi commerciali che partivano dalle coste orientali. Frequenti scontri tribali caratterizzavano la vita di questi regni; cosa che favorì la colonizzazione dei portoghesi, giunti verso la fine del XV secolo[69].

L'Europa nel XVII secolo

Scienza e cultura

Lo stesso argomento in dettaglio: Rivoluzione scientifica e Barocco.
Galileo Galilei che mostra l'uso del cannocchiale al Doge di Venezia

Il XVI e il XVII secolo furono attraversati da una fase di straordinario sviluppo della scienza, tanto che gli stessi contemporanei furono consci di vivere una vera e propria rivoluzione scientifica. L'inizio di questo sviluppo si fa solitamente coincidere con il 1543, data di pubblicazione dell'opera di Niccolò Copernico Sulle rivoluzioni delle sfere celesti con cui si mise in discussione il sistema geocentrico, che poneva la Terra al centro dell'Universo con tutti i corpi celesti che gli ruotavano intorno, a favore di quello eliocentrico in cui al centro vi era invece il Sole. Tale innovazione ebbe ripercussioni profondissime ponendo in crisi molti assiomi della scienza aristotelica ben radicati nella società e negli insegnamenti cristiani. Il lavoro di Copernico trovò molti sostenitori in tutta Europa nonostante la condanna ricevuta da parte della Chiesa di Roma alimentando nuove correnti filosofiche; il filosofo Giordano Bruno pagò con la vita la sua strenua difesa delle nuove idee che andavano circolando.[70][71] I calcoli di Copernico vennero continuati da Giovanni Keplero, che ne fornì una dimostrazione, e da Galileo Galilei che, grazie all'utilizzo del primo telescopio rifrattore, aggiunse ulteriori scoperte come le macchie solari o i satelliti di Giove. Galilei è accreditato dai più anche per essere stato l'iniziatore del metodo scientifico successivamente perfezionato da molti altri scienziati e in particolare dal lavoro i principi matematici della filosofia naturale pubblicato nel 1687 da Isaac Newton.[72][73]

Anche la medicina visse un periodo di grandi innovazioni e in particolare nell'anatomia che beneficiò dell'abrogazione del divieto di dissezione dei cadaveri. Così, già nel 1534, l'anatomista Andrea Vesalio poté pubblicare una serie di tavole anatomiche che mostravano con un dettaglio e una precisione mai raggiunta prima gli organi umani. Verso la fine degli anni 1620 William Harvey pubblicò i suoi lavori con cui descriveva la circolazione del sangue.[74]

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d'Avila. Uno dei migliori esempi di arte barocca

Consci della necessità che tale «accumulo» di sapere che andava a formarsi necessitasse di condivisione, alcuni uomini di scienza e ricchi mecenati fecero nascere in tutta Europa accademie scientifiche ove riunire insieme i più grandi studiosi del tempo; la prima di queste fu l'Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 a Roma e di cui lo stesso Galilei fece parte.[75] Certamente degna di menzione la Royal Society nata nel 1660 a Londra grazie all'iniziativa di John Evelyn e altri accademici allo scopo di promuovere l'eccellenza scientifica come viatico per il benessere della società e ben presto divenuta un «prezioso sistema di comunicazione tra studiosi».[76]

Tra la fine del XVI secolo e l'inizio del successivo in Italia si sviluppò, per propagarsi in tutta Europa, il Barocco, un movimento estetico, ideologico e culturale che influenzò il mondo delle arti, della letteratura, della musica. L'arte barocca fiorì a Roma grazie alle eminenti opere di artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da Cortona anche se lo snodo fondamentale fu costituito dall'opera di Caravaggio. Nucleo pulsante della nuova sensibilità è la tensione dinamica, che si esprime in una ricca gamma di soluzioni stilistiche: l'andamento curvilineo dei corpi architettonici, il sistematico ricorso alla figura bifocale dell'ellisse, l'adozione della colonna tortile e del frontone "rotto", la plastica concitazione delle figure, il rigoglio vaporoso dei drappeggi, la proliferazione dell'ornamento, la dilatazione pittorica delle superfici. Per quanto riguarda la letteratura barocca, gli autori frequentarono con disinvoltura tutti i generi letterari, dal poema alla lirica, dal dramma al romanzo, dalla cronaca di viaggio al saggio erudito, con coraggioso sperimentalismo. La musica barocca solitamente compre un arco di tempo più vasto ma tra i più importanti compositori del Seicento troviamo, oltre a Claudio Monteverdi a cui si attribuisce la nascita dell'opera e il superamento della musica rinascimentale, Arcangelo Corelli, Alessandro Stradella, Dietrich Buxtehude, Heinrich Schütz, Jacques Champion de Chambonnières (considerato il fondatore della scuola clavicembalistica francese), Sigmund Theophil Staden e Johann Jakob Froberger.

La guerra dei trent'anni

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei Trent'anni.
La defenestrazione di Praga del 1618 fu l'evento che segnò l'inizio della guerra dei trent'anni

Con la pace di Augusta del 1555 si era raggiunta una tregua in Germania tra cattolici e protestanti. Questa però era molto instabile, tanto che dopo un paio di decenni la situazione andò a deteriorarsi. Sulla scia della controriforma e a seguito dell'intensa predicazione dei Gesuiti la fazione cattolica divenne sempre più rigida e intollerante verso i protestanti che, in ottica difensiva, si riunirono dell'unione evangelica; i cattolici risposero associandosi nella lega cattolica. Un tale clima, dominato da fanatismi e intransigenze dottrinali, ebbe ripercussioni anche sulle comunità ebraiche, che subirono persecuzioni e sul fenomeno della caccia alle streghe che si intensificò.[77]

La situazione precipitò con la salita al trono di Boemia di Ferdinando II d'Asburgo, fervente cattolico e destinato a divenire imperatore. Le continue vessazioni a cui furono sottoposti i nobili protestanti spinsero alcuni di loro ad assaltare il castello di Praga e a gettare dalla finestra alcuni governatori imperiali; poco dopo la Dieta di Boemia elesse come proprio sovrano Federico V del Palatinato, capofila dell'unione evangelica: era così iniziata la guerra dei trent'anni. Come reazione la lega Cattolica scese in guerra e, guidata dal conte di Tilly, sconfisse pesantemente i protestanti nella battaglia della Montagna Bianca combattuta nel 1620.[78]

Il sacco di Magdeburgo fu uno degli eventi più sanguinosi della guerra

In breve tempo la guerra, iniziata come un conflitto tra protestanti e cattolici, arrivò a coinvolgere tutti gli Stati europei. La cattolica Spagna scese immediatamente in campo a fianco degli imperiali provocando l'ingresso nello scenario della Repubblica delle Sette Province Unite e dell'Inghilterra dalla parte dei protestanti. Federico V del Palatinato trovò l'appoggio anche di Cristiano IV di Danimarca. L'ampliamento del conflitto non mutò tuttavia le sorti di questi primi anni di guerra, con gli eserciti imperiali, aiutati anche dalla guida i Albrecht von Wallenstein, continuarono a cogliere vittorie tanto che Ferdinando d'Asburgo, ora divenuto imperatore, si sentì talmente forte da emanare nel 1629 l'editto di Restituzione con cui i protestanti venivano obbligati a restituire i beni ecclesiastici, secolarizzati dopo il 1552. La paura dell'eccessivo potere che la dinastia asburgica stava acquisendo, spinse il Regno di Svezia, su pressioni della Francia del cardinale Richelieu, a scendere direttamente in campo a favore della fazione protestante.[79]

L'entrata della Svezia, nonostante la morte in battaglia del re Gustavo II Adolfo, cambiarono le sorti della guerra a favore dell'unione evangelica. Tale situazione di vantaggio fece scendere in campo direttamente anche la Francia, cosicché l'ultima fase del conflitto prese i connotati della continuazione della rivalità franco-asburgica per l'egemonia sulla scena europea.[80]

Secolo d'oro olandese

Lo stesso argomento in dettaglio: Secolo d'oro olandese.
Un vascello della Compagnia olandese delle Indie orientali in arrivo a Città del Capo

La ribellione iniziata nel 1566 contro la Spagna portò le province settentrionali dei Paesi Bassi nel 1581 a dichiararsi indipendenti dalla sovranità di Filippo II e a dare vita alla Repubblica delle Sette Province Unite. Nel nuovo Stato ogni città mantenne la propria sostanziale autonomia garantite da forme di autogoverno pur riconoscendo gli Stati Generali come organo supremo a cui partecipavano rappresentanti di ogni provincia con uguale diritto di voto anche se l'Olanda di fatto vantava una incontrastata superiorità. L'indipendenza comportò enormi benefici nelle tradizionali attività di commercio via mare, già peraltro ben floride.[81]

La necessità di avventurarsi in imprese commerciali complesse e talvolta pericolose diede l'impulso alla fondazione della Compagnia olandese delle Indie orientali. Nata nel 1602 dalla fusione di dieci precedenti compagnie, essa è considerata una delle prime società per azioni della storia e a lei venne affidato in regime di monopolio, che nella teoria economica del tempo era giudicato un sistema auspicabile, tutto il commercio con i popoli dell'oceano indiano. La compagnia, dotata di una propria flotta e di propri uomini armati, raggiunse un potere eccezionale, non solo economico ma addirittura politico. Sull'esempio dei suoi enormi guadagni venne fondata anche la Compagnia olandese delle Indie occidentali che, tuttavia, ebbe minor fortuna.[82]

Un così prospero sviluppo commerciale non poté non prescindere dalla presenza di avanzate istituzioni finanziarie. I titoli di credito, già scambiati fin dal Medioevo, divennero uno strumento abituale di mercanti e banchieri; nel 1609 venne fondata la Amsterdamsche Wisselbank (banca dei cambi di Amsterdam), una vera e propria banca pubblica, il cui modello venne replicato anche altrove. Negli stessi anni aprì agli scambi finanziari la borsa di Amsterdam in cui si negoziavano lettere di cambio, titoli di debito pubblico e azioni delle compagnie, talvolta dando vita anche a fenomeni puramente speculativi.[83] Il commercio non fu, tuttavia, l'unico protagonista dell'economia delle Province Unite: industria, cantieristica navale, settore tessile, lavorazione dei diamanti, agricoltura e produzione di birra e distillati, furono tutti settori di grande redditività. Un diffuso benessere economico a sua volta spingeva i consumi e dunque l'economia in generale; mobili, tappeti, tessuti ricercati, oggetti ornamentali, quadri, ecc. non si trovavano solamente nelle case dei ricchi ma anche il ceto medio poteva disporne.[84]

Rembrandt, Ronda di notte (1642)

Ma non solo l'economia caratterizzò il Secolo d'oro olandese, la tolleranza religiosa e il cosmopolitismo furono gli artefici anche di un marcato dinamismo culturale. Ogni villaggio disponeva di una propria scuola mentre l'istruzione superiore era garantita dalla presenza di cinque università di cui quella di Leida era la più importante. Amsterdam divenne uno dei più importanti centri editoriali dove si potevano pubblicare opere che nel resto dell'Europa venivano bandite. La pittura del Secolo d'oro olandese ebbe compre protagonisti di tantissimi artisti tra cui Rembrandt, Frans Hals, Jan Vermeer. Nel campo giuridico, Ugo Grozio teorizzò un diritto valido universalmente, gettando le badi per il diritto internazionale e costituendo un caposaldo del pensiero giuridico moderno, mentre il filosofo Benedetto Spinoza è considerato uno dei maggiori esponenti del razionalismo, antesignano dell'Illuminismo e della moderna esegesi biblica.[85]

Guerra civile inglese e le sue conseguenze

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile inglese e Gloriosa rivoluzione.
Vittoria del New Model Army parlamentarista alla battaglia di Naseby (14 giugno 1645)

Essendo Elisabetta I d'Inghilterra senza figli, alla sua morte il trono andò al re di Scozia Giacomo Stuart che unì le corone. Il suo regno fu contrassegnato da difficoltà finanziare dovute alle ingenti spese militari e al mantenimento di una sfarzosa corte, a cui il re rispose aumentando le imposizioni fiscali generando così malcontento nei propri sudditi.[86] Tali problemi continuarono anche con suo figlio e suo successore, Carlo I d'Inghilterra, la cui politica religiosa relativamente vicina alla chiesa cattolica servì solo ad aggravare la distanza tra la corona e il popolo.[87] Inoltre, Carlo si trovò a dover chiedere nuovi finanziamenti al parlamento inglese per far fronte agli scozzesi che si erano armati contro di lui per sostenere alcune loro rivendicazioni. Il parlamento prese l'occasione per chiedere al re in cambio alcune prerogative ma Carlo rispose sciogliendolo momentaneamente. Una volta riconvocato, i rapporti con il sovrano non mutarono certamente in meglio, tanto che Carlo tentò, senza successo di far arrestare alcuni parlamentari particolarmente ostili scatenando la furia dei cittadini di Londra già sollevatisi contro la corona a seguito di una crisi commerciale che stava attanagliando la città: la guerra civile inglese ebbe così inizio.[88]

Ritratto di Oliver Cromwell, lord protettore d'Inghilterra dopo la guerra civile

Nella battaglia di Naseby del 1645 l'esercito realista venne pesantemente sconfitto da quello repubblicano guidato da Oliver Cromwell e lo stesso sovrano dovette consegnarsi agli scozzesi per trovare salvezza. Fuggito, venne nuovamente sconfitto e questa volta cadde prigioniero. Dopo essere stato processato finì per essere decapitato nel palazzo di Whitehall nel 1649; poco dopo venne abolita la camera dei Lord e proclamato il Commonwealth of England.[89] Assunto il titolo di lord protettore, Cromwell in realtà instaurò un regime di dittatura militare confermando comunque le sue doti di leader riuscendo in breve tempo a pacificare la Scozia, a soffocare le rivolte in Irlanda e a ristabilire l'ordine in Inghilterra; sotto il suo comando l'esercito inglese vinse la prima guerra anglo-olandese facendo ottenere al paese importati accordi commerciali. Inoltre, grazie anche a un'alleanza con la Francia, sconfisse la Spagna in un conflitto protrattosi dal 1655 al 1660. Alla sua morte, avvenuta nel 1658, le redini del regime vennero prese dal figlio Richard che tuttavia si dimise dalla carica solamente due anni più tardi conscio non riuscire a far fronte alle evidenti instabilità del suo potere. A seguito di ciò il parlamento restaurò la monarchia e la dinastia Stuart consegnando il trono a Carlo II, il figlio del re giustiziato undici anni prima.[90]

Morto nel 1685 Carlo, ci si trovò con il problema della successione al trono: una parte del Parlamento, appartenente al partito Whig, non voleva che il fratello minore del defunto re, Giacomo, prendesse il potere in quanto apertamente cattolico, mentre i Tory sostenevano la necessità di rispettare la linea di successione. Alla fine, il 23 aprile 1685, Giacomo II venne incoronato. Il suo regno iniziò subito con atti di dispotismo creando forti malcontenti. I dissidenti si rivolsero a Guglielmo III d'Orange, marito della primogenita del re, che il 5 novembre 1688 sbarcò a Torbay costringendo Giacomo II a trovare rifugio in Francia. Il parlamento incoronò come nuovi sovrani Guglielmo e la moglie Maria II congiuntamente e poco dopo, nel 1689, emanò il Bill of Rights, considerato ancora oggi uno dei cardini del sistema costituzionale del Regno Unito, con cui il paese divenne una monarchia costituzionale. La cosiddetta "Gloriosa rivoluzione" fu così compiuta.[91]

L'età dei lumi e delle rivoluzioni

Assolutismo e società dell'Ancien Régime

Lo stesso argomento in dettaglio: Assolutismo monarchico e Ancien Régime.
Luigi XIV di Francia, tipico esempio di assolutismo monarchico

Nei secoli XVII e XVIII in molti stati l'Europa andò ad affermarsi un sistema politico, conosciuto come assolutismo monarchico, caratterizzato dalla presenza al vertice di governo di un monarca detentore unico dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario secondo la giustificazione del "diritto divino dei re". In questo contesto il sovrano si dichiarava superiore a qualsiasi legge e senza altra autorità, né temporale né spirituale, sopra di egli. Tale situazione fu la conseguenza di alcuni processi già iniziati già secoli addietro in pieno basso medioevo, tra cui la conquistata supremazia della corona sulla nobiltà sempre più relegata a un ruolo di secondo piano e alla non più distinzione tra il potere civile e quello religioso.[92][93] Teorizzato anche da celebri filosofi del tempo, come Jean Bodin e Thomas Hobbes, l'assolutismo ebbe fortissime ripercussioni sulla società civile del tempo sempre più stratificata in diverse classi con privilegi, anche giuridici, differenti.[94] Tuttavia vi furono anche ulteriori forme di governo diverse come la monarchia costituzionale presente in Inghilterra, l'oligarchia nella repubblica di Venezia o il feudalesimo aristocratico in Polonia.[95]

Disegno satirico sulla società di Ancien Régime che mostra come il Terzo Stato porta sulle sue spalle il Secondo Stato (il clero) e il Primo Stato (la nobiltà)

La società di Ancien Régime, come viene solitamente conosciuto questo sistema, fu caratterizzata da diversi aspetti. Innanzitutto si deve osservare che l'Europa del XVIII secolo conobbe un progressivo sviluppo demografico che portò la popolazione quasi a raddoppiare, passando dai quasi 118 milioni a 193, con Londra, Parigi e Napoli le città più popolose. Le cause furono molteplici e non tutte ancora ben individuate: se l'improvvisa scomparsa della peste, gli ultimi focolai furono a Marsiglia nel 1720 e a Messina nel 1743, giocò certamente un ruolo nella riduzione della mortalità, il perdurare di epidemie di tifo, dissenteria e influenza continuavano a mietere vittime.[96] La popolazione era rigidamente divisa in ceti sociali riassumibili in nobiltà, clero e contadini; ogni ceto aveva i propri diritti civili e le possibilità di migliorare il proprio status erano assai ridotte. Tale sistema rappresentava "qualcosa di fisso, di eternamente valido".[97] L'agricoltura era l'attività che vedeva impegnate la maggioranza della popolazione. Sebbene qualche contadino fosse riuscito a raggiungere una certa prosperità, la maggioranza di essi conduceva una vita misera spesso relegata alla mera sussistenza e forme simili alla servitù della gleba erano ancora presenti accanto ai privilegi dei ricchi nobili proprietari terrieri. La mezzadria era il contratto agrario più diffuso anche se talvolta si ricorreva anche all'enfiteusi.[98] Le rivolte dei contadini furono frequenti: una di queste, scoppiata nel 1775 in Boemia permise di ottenere una serie di riforme contro la schiavitù mentre poco prima vi era stata la rivolta di Pugačëv in Russia.[99] Il clero, il secondo ceto, era assai numeroso arrivando, in alcune regioni, a comprendere oltre il 5% della popolazione. La nobiltà rappresentava la classe dirigente e godeva di numerosi privilegi. Era anche una classe molto statica: vincoli sulla trasmissione del patrimonio famigliare, come l'istituto del fedecommesso, la resero comunque meno attiva nel panorama economico dove perse man mano il ruolo di protagonista.[100]

Nonostante l'apparente immobilismo, la società settecentesca vide al suo interno anche grandi evoluzioni. Una di queste fu legata alla condizione femminile che andò incontro a moderati miglioramenti. Maggiore, infatti, fu l'attenzione agli affetti coniugali, al preservare la donna da eccessive gravidanze, a consentirgli un maggiore controllo della vita affettiva e sessuale. Anche all'educazione dell'infanzia venne prestato maggior interesse. Per ultimo, il diffondersi delle idee illuministiche rappresentò uno spartiacque che alla fine del secolo porterà alla crisi dell'intero sistema di antico regime.[101]

L'Illuminismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Illuminismo.
Dipinto di Charles Gabriel Lemonnier rappresentante la lettura della tragedia di Voltaire, in quel tempo esiliato, L'orfano della Cina (1755), nel salotto di Marie-Thérèse Rodet Geoffrin. I personaggi più noti riuniti intorno al busto di Voltaire sono Rousseau, Montesquieu, Diderot, d'Alembert, Buffon, Quesnay, Richelieu e Condillac.

Nel corso del XVIII secolo, in Europa, si sviluppò un vasto movimento noto come "illuminismo", caratterizzato da una visione razionale del mondo e da una fiducia verso un processo di liberazione dell'uomo dalla superstizione e dal pregiudizio. La religione, non solo cattolica, fu bersaglio di molte critiche e accuse poiché vista come responsabile delle "tenebre" che hanno offuscato la storia umana e a cui i "lumi della ragione" avrebbero potuto porre rimedio.[102][103] Nato in Inghilterra ma avente in Francia il suo centro diffusivo, l'illuminismo non ebbe un unico orientamento ma è innegabile l'uniformità di alcuni suoi elementi più caratteristici come il laicismo, il rifiuto dei dogmi, la razionalità e la fiducia nel progresso.[104] Alcuni dei più importanti esponenti, come Voltaire, Montesquieu e Fontenelle, affermarono essersi ispirati a quella filosofia inglese fondata sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica, elementi essenziali del pensiero di Locke e di Newton e David Hume che risalivano a loro volta a quello di Francesco Bacone.[105]

Frontespizio dell'Encyclopédie, la monumentale opera simbolo del nuovo sapere dell'Illuminismo

Figura chiave del movimento fu quella dell'intellettuale, non più soggetto a un mecenate, ma in grado di vivere del proprio lavoro. Suoi strumenti d'eccellenza furono le pubblicazioni accademiche, le riviste, i pamphlets che videro il loro periodo d'oro,[106] mentre i loro luoghi d'incontro furono i caffè e i salotti letterari dove altolocati membri dell'alta borghesia o dell'aristocrazia riformista gli invitavano per conversare e dibattere temi d'attualità.[107] Molteplici furono i campi di indagine esplorati dagli illuministi: se Montesquieu teorizzò la politica della separazione dei poteri nel suo trattato Lo spirito delle leggi l'eclettico Voltaire si occupò molto di storia, mentre lo svizzero Jean-Jacques Rousseau, celebre per il suo contratto sociale, dedicò larga parte dei suoi studi alla musica e alla pedagogia. Per molti François Quesnay, teorico della fisiocrazia, fu il padre dell'economia politica che riprese gli studi sul libero mercato.[108] In Italia i fratelli Pietro e Alessandro Verri furono gli artefici della pubblicazione de Il Caffè a cui partecipò anche Cesare Beccaria celebre per il suo dei delitti e delle pene in cui si criticava l'uso della tortura e della pena di morte.[109]

Emblema dell'illuminismo francese sarà la grandiosa opera dell'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che in 35 volumi, pubblicati dal 1751 al 1780, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert, diffonderà i principi illuministici non solo in Francia ma, attraverso numerose traduzioni, in tutta Europa. Gli illuministi contestavano soprattutto i dogmi della chiesa in quanto diceva cose non vere secondo la ragione umana. Infatti la chiesa per non essere giudicata mise all'indice molti dei libri illuministi.[110]

Il movimento illuminista arrivò a influenzare anche molti sovrani che abbracciarono alcuni dei loro programmi riformatori. Tra i monarchi illuminati si ricorda Federico II di Prussia, grande amico di Voltaire, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e Pietro Leopoldo di Toscana fautore del codice leopoldino con cui si aboliva per la prima volta al mondo la pena di morte. Questi sovrani si contraddistinsero per le moderne riforme intraprese volte a rendere più efficiente e razionale l'apparato amministrativo del proprio stato; su questa linea vennero migliorare le strutture organizzative, ottimizzato il prelievo fiscale anche grazie all'introduzione del catasto dei beni terrieri e immobiliari. Venne agevolato il settore agricolo che trasse beneficio dall'abolizione di alcune antiche consuetudini feudali che ne limitavano lo sviluppo. Non si volle, tuttavia, modificare il sistema di privilegi propri della nobiltà in quanto era proprio su di essi che si legittimava il potere sovrano. Un ampio interesse riformistico fu dedicato ai rapporti con le chiese nazionali su cui venne aumentato il controllo statale in un processo noto come "giurisdizionalismo"; in particolare vennero limitati i numerosi privilegi degli ecclesiastici e combattuto il "parassitismo" degli ordini religiosi contemplativi.[111]

Le guerre del XVIII secolo

La battaglia di Ramillies tra francesi e inglesi del 23 maggio 1706 nel contesto della guerra di successione spagnola

Gran parte del XVIII secolo fu contraddistinto da conflitti armati intercorsi tra le potenze europee, scoppiati perlopiù a causa dei commerci internazionali e per questioni dinastiche in quanto tutte le dinastie regnanti erano imparentate tra di loro e dunque tutte avevano legittime rivendicazioni quando una linea di successione si esauriva.[112] A differenza delle guerre di religione del secolo precedente, i conflitti del XVIII secolo furono sostanzialmente meno sanguinosi. Questi furono prevalentemente combattuti da eserciti permanenti, dotati di un'imponente organizzazione burocratica e composti da soldati professionisti sottoposti a una durissima disciplina.[113]

Nel 1700 Carlo II di Spagna morì senza discendenti ponendo fine al ramo degli Asburgo di Spagna; il suo testamento a favore di Filippo di Borbone, nipote del re Luigi XIV di Francia, trovò l'opposizione di Inghilterra, Repubblica delle Sette Province Unite e Austria preoccupate per la possibile unione delle corone di Francia e Spagna. Il conflitto che ne seguì causò lo smembramento di gran parte dell'Impero spagnolo oramai sul viale del tramonto dopo un periodo di grande prosperità. Un nuovo scontro per motivi dinastici tra Asburgo e Borbone fu la guerra di successione polacca scoppiata nel 1733 alla morte di Augusto. Nonostante che il conflitto terminò con l'ascesa al trono di Augusto III di Polonia, sostenuto dagli Asburgo, fu l'alleanza franco-ispano-sabauda a beneficiare di diverse espansioni territoriali. La guerra di successione austriaca iniziò nel 1740 quando l'imperatore Carlo VI d'Asburgo morì improvvisamente lasciando il trono d'Austria alla figlia Maria Teresa secondo quando disposto dalla Prammatica Sanzione del 1713. Anche questo conflitto comportò diverse modifiche nell'assetto geopolitico europeo.[114]

Se la prima metà del Settecento fu contraddistinta dalle guerre di successione, la seconda si aprì con un conflitto, causato da motivi prevalentemente economici, di così vasta scala che Winston Churchill lo definirà come la «prima vera guerra mondiale», in quanto combattuta non solo in Europa ma anche nelle colonie di nelle Americhe, in Asia e in Africa occidentale. Scoppiata a causa della invasione prussiana della Sassonia, la guerra dei sette anni vide il trionfo dell'Inghilterra come potenza navale a spese della Francia che vide le sue ambizioni coloniali oramai al tramonto perdendo i suoi territori corrispondenti all'odierno Canada, quelli in India, nei Caraibi e sulla costa del Senegal.[115][116] Dopo l'inconcludente guerra contro la Svezia, la Russia di Caterina II iniziò una campagna contro gli Ottomani erigendosi a protettrice della cristianità ortodossa contro la minaccia islamica.[117][118]

L'Inghilterra fu certamente la potenza che uscì maggiormente rafforzata dalle guerre del Settecento, soprattutto sui mari, tuttavia non fu l'unica. La guerra dei sette anni sancì definitivamente l'ascesa del Regno di Prussia di Federico il Grande, già protagonista del conflitto per la successione austriaca. Federico era riuscito a creare un vero Stato militare tanto che i contemporanei descrivevano la Prussia non come «uno Stato con un esercito ma un esercito con uno Stato». Ma il regno di Federico non fu solo questo: i prussiani riuscirono a mettere in piedi lucrosi scambi commerciali con il Baltico mentre la tolleranza religiosa aveva permesso l'arrivo di molti artigiani ugonotti scappati dalla Francia che contribuirono allo sviluppo manifatturiero.[118][119] In Italia, l'abilità di Vittorio Amedeo II di Savoia premise al ducato sabaudo di affermarsi come piccola ma concreta potenza; ottenuta la Sardegna nel 1718 in cambio della cessione all'Austria della Sicilia, Vittorio Amedeo prese il titolo di Re di Sardegna.[117]

Prima rivoluzione industriale

Lo stesso argomento in dettaglio: Rivoluzione industriale e Rivoluzione industriale in Inghilterra.
Illustrazione del 1747 di una fabbrica tessile

Grazie all'espansione dei commerci internazionali, nel corso del Settecento si assistette a una crescita della domanda di prodotti che stimolò il passaggio da una produzione artigiana a quella manifatturiera. La rivoluzione industriale che ne scaturì fu un processo di evoluzione economica che da un sistema agricolo-artigianale-commerciale basato sul sistema corporativo portò a un sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili). Iniziata in Inghilterra intorno agli anni 1760, riguardò prevalentemente il settore tessile-metallurgico e comporta l'introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore.[120]

La rivoluzione industriale comportò una profonda e irreversibile trasformazione che parte dal sistema produttivo fino a coinvolgere il sistema economico nel suo insieme e l'intero sistema sociale. L'apparizione della fabbrica e della macchina modificò i rapporti fra gli attori produttivi. Nacque così la classe operaia che riceve, in cambio del proprio lavoro e del tempo messo a disposizione per il lavoro in fabbrica, un salario. Contemporaneamente si affermò anche un ceto borghese dotato di mentalità imprenditoriale, spirito di iniziativa e propensione al rischio che dette vita al capitalismo industriale, imprenditore proprietario della fabbrica e dei mezzi di produzione, che mira a incrementare il profitto della propria attività.[121]

La rivoluzione industriale ebbe enormi implicazioni sociali. Grazie all'utilizzo di fonti di energia trasportabili, come il carbone, le fabbriche vennero costruite nelle città provocando una sostanziale emigrazione di contadini dalle campagne che si ritrovarono a vivere in condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene. La necessità di trasportare materiali, spesso pesanti, comportò un miglioramento senza precedenti delle vie di comunicazione. L'innovazione tecnologica andò incontro a un rapido sviluppo grazie all'introduzione di nuove tecnologie: nel 1784 Henry Cort brevettò un sistema di puddellaggio che consentì l'ottenimento di ghisa di alta qualità mentre, poco dopo, Edmund Cartwright inventò il telaio meccanico.[122]

La Rivoluzione americana

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'indipendenza americana.
La presentazione della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America

Alla fine della guerra dei sette anni la costa occidentale dell'America del Nord, che si estendeva dal Canada alla Florida, era divisa tra le tredici colonie britanniche. Sebbene ogni colonia fosse contraddistinta da una diversa composizione sociale e da un diverso sistema produttivo, complessivamente la loro vita culturale e economica poteva dirsi assai vivace. Filadelfia, Boston e New York erano le città principali e la popolazione era in progressiva crescita passando dai circa due milioni di abitanti nel 1770 ai quasi tre milioni di dieci anni dopo. Commercialmente esse dipendevano tuttavia dal governo di Londra: tutte le merci esportate dovevano passare prima dalla Gran Bretagna e la loro libertà imprenditoriale era limitata per evitare di entrare in concorrenza con la madrepatria. Nel tentativo di guadagnare autonomia, le colone si erano dotate di assemblee legislative elette dai cittadini che, nonostante avessero conquistato anche ampi poteri nel tempo, non erano riuscite ad affermarsi come confidato scontrandosi spesso con i rappresentanti del governo centrale. Quando la madrepatria decise di aumentare il prelievo fiscale le colonie reagirono duramente invocando il principio di "nessuna tassazione senza rappresentanza" in quanto nessun loro rappresentante sedeva presso il parlamento.[123]

La situazione degenerò quando il 16 dicembre 1773 vi fu un atto di protesta da parte dei coloni, passato alla storia come il Boston Tea Party, che portò le autorità britanniche a ritirare qualsiasi autonomia concessa al Massachusetts. Nell'aprile del 1775 iniziarono i primi scontri armati e le colonie istituirono un esercito comune la cui guida venne affidata a George Washington. Il 4 luglio 1776, il secondo congresso continentale, tenutosi a Filadelfia, dichiarò l'indipendenza della nazione chiamata "Stati Uniti d'America" con la Dichiarazione d'indipendenza, scritta da Thomas Jefferson. Essa venne creata secondo i principi repubblicani che enfatizzavano i doveri pubblici e aborrivano la corruzione e i diritti ereditari nobiliari; nella sua stesura non mancarono chiari riferimenti alla Magna Carta, agli ideali illuministici e al contrattualismo di John Locke.[124][125]

Inizialmente i coloni ribelli subirono la maggior organizzazione e potenza militare dell'esercito del Regno di Gran Bretagna ma poi, grazie a una maggiore esperienze e all'aiuto da parte di molte potenze europee in concorrenza con l'Inghilterra, riuscirono a cogliere nella battaglia di Saratoga del 1777 una prima decisiva vittoria che cambiò le sorti del conflitto. Il trattato di Parigi, firmato nel 1783, pose ufficialmente fine alla guerra dopo quasi otto anni di combattimenti con il riconoscimento ufficiale dell'indipendenza delle oramai ex colonie. Nel 1787, sempre a Filadelfia, una assemblea costituente a cui partecipavano i rappresentanti di tutti i tredici Stati approvò, dopo due mesi di lavori, la costituzione del neonato Stato. Nel 1789 George Washington assunse la carica di primo presidente degli Stati Uniti d'America.[126]

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Età moderna

L'Età moderna è una delle età storiche della periodizzazione tradizionale della storia dell'umanità (Preistoria, Età antica, Medioevo, Età moderna e Età contemporanea); abbraccia un arco temporale di circa tre secoli, compreso tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI secolo sino alla fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo.

Il più comune evento preso come simbolico inizio del periodo è la scoperta europea dell'America da parte di Cristoforo Colombo (1492), scelto per le conseguenze a livello planetario che ne seguirono; l'inizio dell'Età moderna, inoltre, ha date diverse in alcune aree culturali asiatiche. Come evento che segna la fine dell'Età moderna, usualmente si indica l'inizio della Rivoluzione francese (1789), anch'esso per le conseguenze che man mano interessarono tutti i continenti. Esistono comunque proposte che indicano altre date di inizio e di fine: sui limiti cronologici dell'età esiste un dibattito, come è normale in qualsiasi periodizzazione convenzionale.

Tra i caratteri che contraddistinguono l'Età moderna, uno dei più importanti è l'avvio di una diffusa globalizzazione, dovuta alla Rivoluzione geografica: continenti che erano rimasti reciprocamente isolati entrarono in contatto, man mano sempre più stretto; questo fenomeno è saldamente collegato all'inizio del colonialismo europeo. La prima colonizzazione fu quella dell'America, che è alla base della catastrofe demografica dei nativi americani e della tratta atlantica di milioni di africani ridotti in schiavitù. Successivamente, alcuni paesi europei fondarono i primi avamposti commerciali in Asia e Africa. Un effetto indiretto di ciò fu la diffusione del cristianesimo nel mondo. Negli stessi decenni, l'Impero ottomano conquistò l'Europa sudorientale e parti dell'Asia occidentale e del Nord Africa, e la Russia si espanse verso est, raggiungendo la costa del Pacifico nel 1647.

Altri eventi che caratterizzano l'Età moderna sono l'inizio della Rivoluzione industriale, la Rivoluzione scientifica basata sul metodo sperimentale, la diffusione dell'Illuminismo che poi sfocerà nella Rivoluzione francese, un progresso tecnologico sempre più rapido, una politica civile secolarizzata, l'affermazione della teoria economica del mercantilismo e, infine, l'emergere degli Stati-nazione; tutti questi processi troveranno poi sviluppo nella successiva Età contemporanea.

In quest'età, l'Europa occidentale superò ampiamente la Cina in termini di tecnologia e ricchezza pro capite; il fenomeno è detto "grande divergenza". Contemporaneamente, nel mondo islamico, potenze come gli Imperi ottomano, suri, safavide e Moghul crebbero in forza. In particolare nel subcontinente indiano, l'architettura, la cultura e l'arte Mughal raggiunsero il loro apice, mentre si ritiene che l'impero stesso godesse della più grande economia del mondo, più grande di quella dell'intera Europa occidentale, segnando il periodo di protoindustrializzazione. Varie dinastie cinesi e shogunati giapponesi controllavano l'Estremo Oriente. Nel XVI secolo, l'economia cinese, sotto la dinastia Ming, e quella indiana, con l'Impero Moghul, furono avvantaggiate dal commercio con portoghesi, spagnoli e olandesi, mentre il Giappone fu impegnato nel cosiddetto commercio Nanban, dopo l'arrivo dei primi portoghesi durante il periodo Azuchi-Momoyama.

L'Età moderna è contraddistinta anche dall'allontanamento dai modi di organizzazione medievali, sia politicamente sia economicamente: il feudalesimo declinò e la Riforma protestante ruppe l'unità religiosa dell'Europa occidentale. Ne conseguirono disastrose guerre di religione in Europa, compresa la Guerra dei trent'anni; la chiesa cattolica reagì allo scisma attraverso la Controriforma.

Periodizzazione

Lo stesso argomento in dettaglio: Periodizzazione.

Inizio

L'inizio dell'Età moderna è usualmente indicata nel 1492, anno della scoperta europea dell'America, in seguito al primo viaggio di Cristoforo Colombo; tale evento, infatti, ebbe un impatto planetario su tutto il successivo corso della Storia, dato che segnò l'inizio della colonizzazione europea nel mondo e dei contatti tra vari continenti che erano rimasti sempre reciprocamente isolati.

Alcuni storici hanno proposto come date alternative la caduta di Costantinopoli (1453), conquistata dai turchi ottomani; l'inizio della Riforma protestante (1517), l'inizio del Rinascimento europeo o di quello timuride in Asia centrale, le conquiste musulmane nel subcontinente indiano. Ad ogni modo, non vi è dubbio che il passaggio tra XV e XVI secolo coincise con un cambiamento che riguardò praticamente tutti gli aspetti della vita[1].

In alcune aree asiatiche, l'inizio dell'Età moderna ha date diverse dal 1492, tutte basate sulla fine della società medievale. Si elencano di seguito tali date:

  • Giappone: nel 1603, inizio del periodo Azuchi-Momoyama, durante il quale ci fu la riunificazione dell'Impero Giapponese[2];
  • Corea: nel 1392, con l'ascesa della dinastia Joseon[senza fonte];
  • Cina: nel 1368, con l'avvento della dinastia Ming[3];
  • India: nel 1707, inizio della disgregazione dell'Impero Moghul e della penetrazione britannica[4];
  • Persia: nel 1502, con l'ascesa della dinastia Safavide, di lingua e cultura turca[5].

Fine

La fine dell'Età moderna è segnata dallo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, per le conseguenze che ebbe in tutte le società e in tutte le culture del pianeta, nonostante la violenza che essa ha comportato: gli ideali rivoluzionari esposti nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, hanno improntato le vicende e il sentire di tutta la successiva Età contemporanea[6].

Come data alternativa è stato proposto l'anno 1815, quello del Congresso di Vienna, che sancisce formalmente la fine dell'epoca rivoluzionaria e napoleonica, senza però poterne cancellare le idee e i valori che si erano ormai diffusi in Europa e nel giro di qualche decennio, anche nel resto del mondo[6]. Altri indicano come evento alternativo la Rivoluzione industriale (1769).

L'Europa nel primo periodo moderno

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia d'Europa.

Società, cultura e politica all'inizio della modernità

Lo stesso argomento in dettaglio: Umanesimo e Rinascimento.
Una pagina della Bibbia di Gutenberg del 1455

A partire dall'inizio dell'Età moderna la popolazione europea tornò a crescere, in particolare nei centri urbani, dopo un secolo di crisi. Ciò inevitabilmente provocò un incremento della domanda di beni di prima necessità facendone crescere i prezzi mentre la moneta perderà di valore per le ingenti importazioni di metalli che in breve tempo giungeranno dalle nuove terre scoperte. Tutto ciò non venne compensato dalle aziende agricole, che si trovavano ancora in uno stato di arretratezza mentre la vita dei contadini era assai variabile: se da una parte alcuni di loro vivevano una situazione di pura sussistenza, altri godevano di un benessere giunto grazie a un ancora incerto processo di mobilità sociale.[7]

Fu proprio l'aumento di coloro in grado di disporre di una certa capacità di acquisto a spingere il settore manifatturiero. Nel XVI secolo, infatti, si assistette a un incremento della produzione di beni, soprattutto tessili, non di esclusiva utilità, ma sempre più orientati verso il lusso. I ceti più abbienti iniziarono ad abbellire le proprie dimore con oggetti sfarzosi come segno della propria affermazione mentre le famiglie altolocate facevano edificare sontuose cappelle nelle chiese chiamando affermati artisti affinché le decorassero. Così si diffuse la pratica del mecenatismo che raggiunse il suo massimo nelle ricche e sfarzose corti dei principi italiani che divennero un punto di riferimento vitale per i migliori pittori, scultori, architetti del tempo, un elemento determinante del Rinascimento.[8]

Il XV secolo è attraversato da importanti cambiamenti culturali: l'ottimismo, la fiducia nell'uomo e nelle sue possibilità, il principio della "virtù" umana contrapposta al "fato" sono manifestazioni filosofiche e letterarie di un periodo noto col nome di Umanesimo. Tra tutti gli umanisti del periodo spicca la figura di Erasmo da Rotterdam, un sicuro punto di riferimento per buona parte dell'intellettualità europea. La scoperta di codici letterari in latino e in greco e il contemporaneo arrivo di numerosi intellettuali bizantini scampati alla conquista ottomana di Costantinopoli contribuirono a portare alla riscoperta di buona parte della letteratura latina e greca, insieme alla diffusione fra gli intellettuali dello studio della lingua greca, favorito dalla presenza dei dotti bizantini in arrivo dall'Oriente, fino ad allora mai condotto in Occidente a un tale livello sia qualitativo che quantitativo. Significativi progressi vengono fatti anche nel campo della filologia e della storiografia. La diffusione dei nuovi modelli culturali, che superavano le oramai sterili dispute della scolastica medievale, venne aiutata enormemente grazie all'introduzione, nel 1455, della stampa a caratteri mobili, per opera del tedesco Johannes Gutenberg. Con l'invenzione della stampa fiorirono le prime editorie, in particolare nella penisola italiana, dove è celebre la stamperia veneziana di Aldo Manuzio.[9][10]

Il quadro politico dell'Europa del XVI secolo era piuttosto variegato ma in linea generale vi erano dei sovrani a cui si affiancava un'assemblea rappresentativa che ne limitava il potere soprattutto in ambito tributario. In Germania, cuore del Sacro Romano Impero, l'imperatore, secondo quanto stabilito nella bolla d'oro del 1356, veniva eletto da sette principi elettori a carica ereditaria. Questi elettori rappresentavano le centinaia di piccoli Stati e città in cui il territorio era diviso, ognuno dei quali autonomo e soggetto al solo imperatore. Infine, tutte le entità politiche esistenti si riunivano in un'assemblea, convocata dall'imperatore al bisogno, detta "dieta imperiale".[11] Anche in Spagna, nonostante che i regni cristiani avessero completato la Reconquista ai danni dei musulmani di al-Andalus, la geografia politica appariva alquanto frammentaria. Nel Regno di Castiglia e di Aragona, le cortes erano assemblee ove sedevano i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città.[12] Nel Regno di Francia il re era forse il sovrano europeo con maggior potere ma anch'egli era tenuto a condividere le scelte fiscali con gli Stati generali.[13]

Molti eruditi del tempo studiarono la politica a loro contemporanea; in Italia Niccolò Machiavelli descrisse la situazione degli Stati in perenne lotta tra di loro non lesinando critiche, mentre Francesco Guicciardini aprì la strada a un nuovo stile nella storiografia caratterizzato dall'uso di fonti governative a supporto delle argomentazioni e dell'analisi realistica delle persone e degli eventi del suo tempo. In Francia Jean Bodin diede una nuova definizione del monarca sostenendo che a lui fosse concesso di "fare e disfare" le leggi a suo completo piacimento in quanto il suo potere era al di sopra di esse, una teorizzazione che anticipava l'assolutismo monarchico[14][15]

Evoluzione nel modo di fare la guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Fortificazione alla moderna, Lanzichenecchi e Tercio.
Cittadella di Jaca (Spagna), tipico esempio di fortificazione all'italiana

Col passaggio dall'Età medievale all'Età moderna vi furono progressivamente varie evoluzioni in campo militare che cambiarono radicalmente il modo di fare la guerra, esse furono[16]:

  • importante sviluppo dell'artiglieria e conseguente nascita delle fortificazioni all'italiana con mura basse e spesse (più resistenti ai colpi dei cannoni) e altre caratteristiche che le differenziano molto da castelli e fortificazioni medievali[16].
  • declino della cavalleria pesante che fu sostituita soprattutto dalla fanteria e in parte minore dalla cavalleria leggera (quest'ultima venne usata perlopiù come unità ausiliaria per le scorrerie)[16].
  • nascita di due nuovi tipi di unità militari, i lanzichenecchi (o falange svizzera, organizzati in quadrati di 6000 uomini armati di picca lunga) e i tercio spagnoli (organizzati in unità da 3000 uomini con picchieri e archibugieri, successivamente moschettieri)[16].
  • aumento numerico degli effettivi all'interno degli eserciti, con conseguente aumento delle spese belliche che causarono la necessità di riformare le finanza e che segnò l'ascesa delle grandi monarchie (le uniche a potersi permettere grosse spese)[16].
  • declino dell'importanza della nobiltà in guerra[16].
  • declino dell'uso di galee in favore dei velieri.

Esplorazioni e imperi coloniali

Lo stesso argomento in dettaglio: Età delle scoperte, Colonizzazione europea delle Americhe, Impero portoghese e Impero spagnolo.
L'arrivo di Colombo a San Salvador

Nella seconda metà del XV secolo vengono realizzate importanti esplorazioni geografiche. I portoghesi giungono al capo di Buona Speranza nel 1487 con Bartolomeo Diaz, per poi "doppiare" il continente africano nel 1497 con Vasco da Gama. Cinque anni prima Isabella di Castiglia finanziò una spedizione marittima che, secondo le idee del genovese Cristoforo Colombo, avrebbe dovuto raggiungere la Cina ma finì per scoprire un nuovo continente: l'America. Il Nuovo Mondo fu poi meta di altre spedizioni che ne approfondirono la conoscenza, come quelle di Giovanni Caboto (1497), Amerigo Vespucci (1512) e Giovanni da Verrazzano (1524). Nel frattempo, nel 1519, la spedizione di Ferdinando Magellano aveva effettuato la prima circumnavigazione del globo terrestre.[17]

Grazie a tali spedizioni gli europei entrarono in contatto con nuove culture e sistemi politici, e contestualmente ebbe inizio il progressivo spostamento degli equilibri politici e commerciali dal mar Mediterraneo all'oceano Atlantico. I protagonisti di questa prima fase di espansione coloniale furono il Regno del Portogallo e la Spagna, tanto che il trattato di Tordesillas divise il mondo al di fuori dell'Europa tra loro.[18][19]

Quest'ultima, in particolare, iniziò a creare un vero e proprio impero, aprendo la stagione dei conquistadores che, in successive spedizioni, polverizzano l'Impero azteco e quello inca, sottomettendo gran parte delle popolazioni indigene del Sud America. Le colonie spagnole, differentemente dal modello portoghese, si basarono sulla conquista territoriale e sullo sfruttamento agricolo e minerario, affidato all'istituzione dell'Encomienda. Vengono intraprese politiche di conversione e di europeizzazione forzata della popolazione, non di rado caratterizzate da violenze e, in occasione delle conseguenti ribellioni, da veri e propri massacri. La scoperta e la messa in sfruttamento di molte miniere generò un enorme afflusso di capitali verso la Spagna che produce effetti destabilizzanti per l'economia europea, soggetta a una crescente inflazione.[20][21]

La Riforma protestante e la Controriforma

Lo stesso argomento in dettaglio: Martin Lutero, Riforma protestante, Controriforma e Concilio di Trento.
Martin Lutero illustra le sue 95 tesi appena affisse

Alla fine del XV secolo la Chiesa viveva una profonda crisi morale, spirituale e di immagine. Nel Papato e nell'alto clero questa crisi si manifestava con l'assunzione di pratiche e comportamenti che niente avevano a che vedere con la fede. La prima preoccupazione dei papi era la difesa strenua del proprio Stato, con continue guerre che dissanguavano le economie dello Stato Pontificio, e la preoccupazione di arricchire sé stessi più che difendere la religione. Il nepotismo era diffuso a tutti i livelli, a cominciare dai papi. La consuetudine di accumulare i benefici ecclesiastici (con le rendite a essi connessi) era pratica comune. Il basso clero, pochissimo istruito e senza alcuna preparazione specifica, viveva come poteva e contribuiva a fare della religione un insieme di pratiche più vicine alla superstizione che alla fede.[22][23]

Già da molto tempo all'interno della stessa Chiesa si avvertiva la necessità di una riforma, ma il punto di svolta si ebbe quando il monaco e professore di teologia tedesco Martin Lutero rese pubbliche nel 1517 le sue 95 tesi, in cui condannava la frequente pratica della vendita delle indulgenze. Aiutate dalla recente introduzione della stampa, le tesi ebbero una vastissima e rapida diffusione in tutta Europa dando inizio alla riforma protestante. Lutero e i suoi seguaci non si limitarono a criticare l'atteggiamento troppo terreno della Chiesa, ma ne misero in discussione anche alcuni principi dottrinali proponendo una teologia diversa riassumibile nelle Cinque sola. Lutero venne condannato da papa Leone X e bandito dall'Impero dalla dieta di Spira del 1526, ma trovò protezione nel principe Federico il Saggio. La riforma ebbe così anche connotati politici dividendo la Germania tra principi protestanti e principi cattolici che si fronteggiarono fino a prendere le armi nella guerra di Smalcalda.[24]

Papa Paolo III ha una visione del concilio di Trento

La Riforma non coinvolse solamente la Germania: le idee riformistiche si affermarono infatti anche in altri territori. A Ginevra il teologo Giovanni Calvino perfezionò lo zwinglianesimo, fondando una propria dottrina protestante: il calvinismo. Non mancarono movimenti più radicali che, trovando alimento nelle tensioni sociali, causarono sanguinose sommosse come la rivolta dei contadini.[25] Nel Regno di Francia il protestantesimo fu causa di guerre di religione che imperversarono per tutta la seconda metà del XVI secolo.[26] Come risposta, la Chiesa cattolica indisse nel 1545 il concilio di Trento che, sebbene non riuscì nell'intento di ripristinare l'unità religiosa in Europa oramai definitivamente compromessa, dette inizio alla controriforma, ovvero un insieme di misure di rinnovamento spirituale, teologico, liturgico che contraddistinsero il cattolicesimo in Età moderna.[27]

L'impero di Carlo V e le guerre d'Italia

Lo stesso argomento in dettaglio: Carlo V d'Asburgo e Guerre d'Italia del XVI secolo.
L'imperatore Carlo V in un dipinto di Tiziano

La pace di Lodi del 1454 aveva dato vita a un periodo di pace in Italia, sebbene alquanto instabile. Solo mezzo secolo dopo, infatti, alla morte di papa Innocenzo VIII e di Lorenzo de' Medici, la situazione precipitò. Complici le mire dei principi stranieri sugli Stati italiani, l'aspirazione della Repubblica di Venezia ad ampliare i propri domini di Terraferma e le ambizioni di potere di papa Alessandro VI e del duca di Milano Ludovico il Moro, a partire dalla fine del XV secolo iniziarono una serie di conflitti che sconvolsero la penisola con il loro seguito di distruzioni, epidemie e saccheggi. La stagione venne inaugurata nel 1494 con la discesa del re francese Carlo VIII, con l'obiettivo di conquistare il Regno di Napoli, spedizione che tuttavia terminò con un insuccesso delle armate francesi.[28][29]

Le guerre in Italia vennero continuate dal successore di Carlo, il nipote Luigi XII di Francia, arrivando a una situazione di stallo dopo una serie di conflitti e cambiamenti di alleanze. La situazione si acuì quando nel 1515 salì sul trono francese l'ambizioso Francesco I, seguito l'anno seguente su quello spagnolo da Carlo V d'Asburgo. Il primo atto dei difficili rapporti tra i due sovrani si ebbe nella corsa all'elezione a imperatore del Sacro Romano Impero vinta poi da Carlo grazie ai finanziamenti dei ricchissimi banchieri Fugger. In questo modo, Carlo si trovò a essere il sovrano di un immenso territorio che comprendeva l'Impero spagnolo con le sue colonie americane, i Paesi Bassi asburgici, il Ducato di Borgogna, l'Arciducato d'Austria e il Sacro Romano Impero. Come imperatore, Carlo si sentì investito del ruolo di guida di tutta la cristianità e su questa visione incentrò tutta la sua politica interna ed estera dovendo, pertanto, ricorrere a numerosi interventi militari e far fronte a ingentissime spese che causarono malcontenti.[30][31]

Il sacco di Roma raffigurato da Johannes Lingelbach

Nel prosieguo delle guerre d'Italia avvenne un fatto di grave portata: nel 1527 truppe imperiali di Carlo V, composte principalmente da lanzichenecchi di fede protestante, saccheggiarono Roma compiendo massacri nella popolazione e ingenti danni al patrimonio artistico; papa Clemente VII dovette trovare rifugio a Castel Sant'Angelo. L'evento ebbe grandi ripercussioni, non solo sulla Città Eterna ma su tutta la politica del continente; la situazione si stabilizzò nel 1530 quando il pontefice mise sul capo di Carlo la corona ferrea di imperatore e questi restituì alla Chiesa i suoi possedimenti. Tale incoronazione accrebbe il proposito dell'imperatore di essere guida della Cristianità e di proteggerla dalla riforma protestante oltre che dalla minaccia dell'Impero ottomano che aveva già conquistato il Regno d'Ungheria fermandosi solo nel 1529 dopo aver tentato di assediare Vienna.[11]

L'Italia alla fine delle guerre del XVI secolo

Nel 1555, all'età di 55 anni, Carlo V decise di abdicare dividendo i suoi possedimenti tra due successori: al fratello Ferdinando I d'Asburgo cedette la corona imperiale e i territori della Monarchia asburgica (dando origine al ramo degli Asburgo d'Austria), mentre al figlio Filippo vennero consegnate le corone di Spagna, Castiglia, Sicilia e delle Nuove Indie a cui seguirono anche quelle dei Paesi Bassi e della Franca Contea (ramo degli Asburgo di Spagna). Fu proprio quest'ultimo che contribuì a mettere fine alle guerre d'Italia firmando nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis con Elisabetta I d'Inghilterra ed Enrico II di Francia. Con questo trattato tutti gli Stati italiani persero la loro autonomia ed entrarono nell'orbita della Spagna, chi direttamente come il Ducato di Milano, lo Stato dei Presidi, il Regno di Napoli, di Sicilia e di Sardegna che divennero parte della corona spagnola governati da viceré o governatori; chi indirettamente, come lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana o la Repubblica di Genova. La Repubblica di Venezia fu l'unica a mantenere la propria indipendenza anche se dovrà scendere a patti con la Spagna per poter continuare la guerra contro gli Ottomani nel Mediterraneo.[32][33][34]

Espansionismo ottomano

Lo stesso argomento in dettaglio: Impero ottomano ed Espansione dell'Impero ottomano.
Il sultano Solimano il Magnifico avanza nella battaglia di Mohács

Dopo aver preso Costantinopoli nel 1453 i turchi ottomani continuarono la loro espansione arrivando a conquistare anche la Siria e l'Egitto. L'apice dell'impero si ebbe durante il regno del sultano Solimano il Magnifico iniziato nel 1494. Istanbul, il nuovo nome di Costantinopoli, sotto Solimano divenne una città più popolosa di qualsiasi altra europea e nel contempo si dotò di grandiose opere architettoniche progettate dall'architetto Sinān. Solimano è ricordato soprattutto per la sua attività legislativa, promuovendo la realizzazione di un codice di leggi, e per le sue imprese militari che condusse instancabilmente per tutta la vita; celebre la sua vittoria nella battaglia di Mohács del 1526, nella quale sbaragliò le truppe cristiane conquistando il Regno d'Ungheria e aprendosi la strada verso Vienna che assedierà nel 1529 senza però riuscire a prenderla. Negli stessi anni, il suo ammiraglio Khayr al-Dīn Barbarossa conquistava Algeri e Tunisi facendone dei covi per i pirati barbareschi che da lì si spingevano fino a razziare le coste italiane e spagnole. Solimano non tralasciò nemmeno la frontiera orientale con l'impero safavide, avversario anche sulla dottrina religiosa in quanto sciita.[35][36]

Con Solimano gli Ottomani, dunque, arrivarono a rappresentare una reale minaccia per l'Europa cristiana. Carlo V rispose nel 1535 con una campagna di successo contro i pirati, mentre l'isola di Malta si distinse nel 1565 per un'eroica resistenza; ciò non riuscì a Cipro, all'epoca possedimento veneziano, che cadde tre anni più tardi. La fortemente celebrata vittoria dei cristiani riuniti nella Lega Santa voluta da papa Pio V nella battaglia di Lepanto del 1571 non servì a fermare l'espansionismo turco nel Mediterraneo e nei Balcani. Bisognerà aspettare il 1683, quando il fallimento nella presa di Vienna ridimensionerà le ambizioni di conquista degli Ottomani, costretti alla firma della pace di Carlowitz, sancendo di fatto il declino a cui stava andando incontro il loro impero.[37][38]

Formazione degli Stati-nazione e guerre di religione

Lo stesso argomento in dettaglio: Stato-nazione e Guerre di religione in Europa.
Equilibri religiosi in Europa alla fine del XVI secolo

Il processo già avviato nel Medioevo di formazione degli Stati-nazione ebbe il suo culmine del XVI secolo. Sotto il regno di Filippo II la Spagna raggiunse il massimo splendore, periodo conosciuto come Siglo de Oro. Tuttavia iniziarono anche a manifestarsi i primi segni di decadenza. Mancava il ceto della borghesia, fondamentale per la crescita dell'economia e le ingenti importazioni di metalli preziosi dalle colonie americane non contribuivano a far crescere l'economia del paese ma venivano utilizzate per saldare i debiti contratti con altri Stati.

Nel XVII secolo la Francia fu sconvolta da sanguinose guerre di religione che contrapposero i francesi di fede cattolica a quelli di fede calvinista, gli ugonotti. Il calvinismo fu dapprima perseguitato dal sovrano Enrico II, ma quando la corona passò alla moglie Caterina de' Medici i protestanti la politica mutò. Questo provocò un grosso malcontento tra le file cattoliche che per diversi anni fecero guerra ai calvinisti. La pace venne raggiunta solo dopo l'incoronazione di Enrico IV che con l'editto di Nantes nel 1598 consentì a tutti i francesi la libertà di culto.[39]

La regina Elisabetta I d'Inghilterra

Dopo la travagliata guerra delle due rose, l'Inghilterra durante il XVI secolo fu relegata a un ruolo marginale, dovuto anche alla debolezza militare e allo scisma anglicano, voluto da re Enrico VIII, che divise la chiesa inglese da quella cattolica. Il distacco da Roma venne portato a termine sotto il lungo e prospero regno di Elisabetta I d'Inghilterra (1558-1603) che attuò una violenta repressione contro i cattolici arrivando a mettere a morte la cugina Maria Stuart. L'esecuzione di Maria aggravò i rapporti con la cattolicissima Spagna; nel 1570 una flotta di corsari inglesi cominciò ad attaccare e a depredare le navi spagnole. Nel 1588 una potente flotta spagnola, l'Invincibile Armata, attaccò il regno ma fu sconfitta e in gran parte distrutta: per la Spagna si trattò di una sconfitta gravissima mentre l'Inghilterra si avviò a diventare una forte potenza marittima. Alla morte di Elisabetta I, dato che non era sposata e non aveva figli, la corona passò alla famiglia degli Stuart.[40]

All'epoca di Filippo II di Spagna i domini olandesi erano suddivisi in diciassette Province. Per secoli le civiltà fiamminghe e olandesi si erano governate autonomamente e avevano goduto di un solido sviluppo economico. Il Re di Spagna impose sulla popolazione il cattolicesimo, provocando un grande malcontento soprattutto da parte di tutti i calvinisti, che nel 1566 diedero vita a una riforma antispagnola. La Spagna, cercando di riaffermare la propria autorità, fece una violenta repressione e impose un maggior controllo anche sull'attività urbana. Ma a questo suscitò la ribellione anche dei cattolici che temevano di perdere la libertà cittadina. Si unirono così nel 1576 ai calvinisti per una ribellione e firmarono un patto di unione nazionale.

Lo zar Ivan IV di Russia

Anche la Polonia, dopo aver raggiunto il proprio apogeo politico-economico tra Quattrocento e Cinquecento, inizia ad attraversare un lento declino, che porterà alla scomparsa del regno per l'ingerenza delle confinanti potenze europee (Prussia, Austria e Russia). Nell'Età moderna in Scandinavia si smembra l'Unione di Kalmar e sorgono la Svezia e la Norvegia, mentre la Finlandia rimane sotto il governo svedese. In seguito la Norvegia viene conquistata dai danesi e la zona degli attuali Paesi baltici (sotto il governo svedese) viene conquistata dai russi. Infine, in Russia, dopo una lunghissima lotta contro i Mongoli Ivan il Terribile giunge all'indipendenza e si autoproclama Zar. Dopo la sua morte segue un periodo di disordini politici.

Ma la formazione degli Stati non fu un fenomeno che coinvolse tutta la popolazione europea. Nel Sacro Romano Impero, ormai tramontata l'idea di un impero universale europeo, il territorio continuò a essere diviso in centinaia di regnicoli. Essi erano divisi anche sulla fede religiosa, chi di confessione cattolica, chi protestante e non mancarono gravi scontri armati tra i due schieramenti, come la già ricordata guerra di Smalcalda. La, seppur momentanea, pace venne trovata con il trattato di Augusta del 1555 che, tuttavia, sanciva la divisione di fatto del regno secondo il principio Cuius regio, eius religio.[41] Anche l'Italia, uscita devastata e posta in gran parte sotto il dominio spagnolo, non riuscì ad affermare la propria identità nazionale perseverando nella sua frammentaria geografia politica.[42]

 

L'Asia tra il XVI e il XVIII secolo

Cina: dinastie Ming e Qing

Lo stesso argomento in dettaglio: Dinastia Ming e Dinastia Qing.
L'imperatore Wanli della dinastia Ming

Durante l'era della dinastia Ming, al potere tra il 1368 e il 1644, la Cina era il paese più avanzato nella matematica e nelle scienze, tuttavia ben presto venne raggiunta e superata dagli europei.[43] Gli storici hanno proposto diversi motivi per tale rallentamento tra cui l'incapacità di capitalizzare i suoi primi vantaggi e la mancanza di una "rivoluzione scientifica" a causa della difficoltà a superare le tradizioni confuciane.[44]

Nei primi decenni sotto i Ming, l'urbanizzazione del paese aumentò man mano che la popolazione cresceva e la divisione del lavoro diventava più complessa. Anche i grandi centri urbani, come Nanchino e Pechino, contribuirono alla crescita dell'industria privata. In particolare si affermarono le industrie di piccola scala, spesso specializzate in oggetti di carta, seta, cotone e porcellana. Tuttavia la maggior parte della Cina era composta da centri urbani relativamente piccoli dotati di propri mercati. Durante il XVI secolo fiorì il commercio via mare con l'Impero portoghese, spagnolo e olandese. Tali scambi fecero giungere un'enorme quantità di argento, di cui la Cina all'epoca aveva un disperato bisogno in quanto il suo precedente sistema basato sulla moneta cartacea era da tempo andato in crisi per colpa di una fortissima inflazione.[45][46]

L'eccessivo lusso e decadenza dei costumi caratterizzarono gli anni tra il XVI e il XVII secolo, gli ultimi della dinastia Ming

Successivamente, con il declino della dinastia, la Cina tornò a isolarsi volontariamente.[47] Nonostante le politiche isolazioniste, l'economia soffrì ancora di una forte inflazione dovuta a una sovrabbondanza di argento spagnolo che entrava nella sua economia attraverso nuove colonie europee come Macao.[48] Inoltre il paese dovette affrontare dure e costose guerre, seppur vittoriose, per proteggere la penisola coreana dai tentativi di invasione giapponesi.[49] La crisi commerciale che colpì l'Europa intorno al 1620 fece sentire i suoi negativi effetti sull'economia cinese.[50] La situazione fu ulteriormente aggravata da un periodo climatico non favorevole per l'agricoltura, dal verificarsi di calamità naturali e da improvvise epidemie. Un tale drammatico scenario aveva fortemente indebolito l'autorità del governo, così nel 1644 la dinastia Ming lasciò il posto, dopo un breve periodo di transizione dominato dal ribelle Li Zicheng, alla dinastia Qing che fu l'ultima a governare sulla Cina imperiale.

Shogunati giapponesi

Lo stesso argomento in dettaglio: Periodo Sengoku, Periodo Azuchi-Momoyama e Periodo Edo.
Rappresentazione delle battaglia di Sekigahara, uno degli eventi più significativi della storia del Giappone

All'inizio dell'Età moderna il Giappone era governato da un sistema di tipo feudale. L'imperatore, a cui erano attribuite qualità semi-divine era formalmente al vertice dell'organizzazione gerarchica ma il vero potere si trovava nelle mani dello Shōgun, una carica, divenuta nel tempo ereditaria, che assumeva su di sé le prerogative di capo militare e di primo ministro. Sotto di loro vi erano i signori feudali, chiamati Daimyō, che controllavano con potere assoluti le province a loro assegnate disponendo del servizio della casta guerriera dei samurai sostanzialmente equivalente a quella della cavalleria medievale europea.[51] Questo era l'assetto del Giappone quando, nel 1467, iniziò il cosiddetto "periodo Sengoku", caratterizzato da vasta crisi politica in cui i piccoli feudi si trovavano costantemente in guerra tra loro. Intorno alla metà del XVI secolo i giapponesi entrarono in contatto con i portoghesi da cui adottarono molte delle tecnologie e delle pratiche culturali europee sia in campo militare (l'archibugio, armature in stile europeo, navi europee), sia religioso (cristianesimo), sia artistico e linguistico con l'integrazione di un vocabolario occidentale nella lingua giapponese.

L'autorità del governo centrale fu in gran parte ristabilita grazie a Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi che dettero inizio al periodo Azuchi-Momoyama. Sebbene venga spesso indicato il 1573 come data di inizio, in termini più ampi, la nuova era si aprì in realtà con l'ingresso di Oda Nobunaga a Kyoto nel 1568 alla guida dell'esercito allo scopo di insediare Ashikaga Yoshiaki come quindicesimo e ultimo shōgun dello shogunato Ashikaga. La battaglia di Sekigahara combattuta nel 1600 fu un punto di svolta nella storia del Giappone: l'armata orientale, guidata da Tokugawa Ieyasu, uno dei generali di Hideyoshi, si impose contro i suoi rivali del clan Tokugawa. Con tale vittoria, Ieyasu, pose la prima pietra per l'egemonia sul paese che consolidò tre anni più tardi fondando lo shogunato Tokugawa che sarà l'ultima dittatura militare a regnare sul paese garantendo un periodo di pace e stabilità politica conosciuto come "periodo Edo".[52][53]

Corea

Nel 1392, il generale Yi Seong-gye dette inizio alla dinastia Joseon grazie a con un colpo di Stato in gran parte incruento. Yi Seong-gye spostò la capitale della Corea nella sede dell'odierna Seul.[54] La dinastia fu fortemente influenzata dal confucianesimo, che svolse anche un ruolo importante nel plasmare la forte identità culturale della Corea.[55][56]

Durante la fine del XVI secolo, la Corea fu invasa due volte dal Giappone, la prima nel 1592 e di nuovo nel 1597. In entrambe le occasioni i giapponesi non riuscirono nell'impresa per via della resistenza postagli dell'ammiraglio Yi Sun-sin, il venerato comandante navale coreano, che guidò la marina coreana utilizzando avanzate navi rivestite di metallo conosciute come navi testuggine. Poiché le navi erano armate di cannoni, la marina dell'ammiraglio Yi fu in grado di demolire le flotte d'invasione giapponesi, distruggendo centinaia di navi nella seconda invasione del Giappone.[56] Durante il XVII secolo, la Corea fu nuovamente invasa, questa volta dai manciuriani, che in seguito avrebbero conquistato la Cina come dinastia Qing. Nel 1637, il re Injo fu costretto ad arrendersi alle forze Qing e gli fu ordinato di inviare principesse come concubine al principe Dorgon.[57]

L'India dei Moghul

Lo stesso argomento in dettaglio: Impero Moghul.
Babur, il conquistatore

Tra il 1451 e il 1526 il subcontinente indiano fu governato dalla dinastia Lodi, l'ultima famiglia regnante del sultanato di Delhi. L'ultimo sovrano della dinastia, Ibrahim Lodi, venne sconfitto e ucciso dall'esercito turco-mongolo di fede islamica guidato da Babur, detto il "conquistatore", nella prima battaglia di Panipat. Una volta sottomesso l'India settentrionale, Babur dette vita all'impero Moghul, destinato a governare la regione fino agli inizi del XVIII secolo arrivando a espandersi per gran parte dell'Hindustan.[58][59]

In breve, sotto i Moghul l'India divenne la più grande economia mondiale del tempo sostenuta da una vera e propria potenza manifatturiera votata in particolare alla produzione tessile.[60][61] L'apice venne raggiunto sotto il lungo regno di Akbar, detto il grande, al potere tra il 1556 e il 1605. Il sovrano perfezionò il sistema di divisione territoriale in province e distretti, già utilizzato dal XII secolo, e introdusse miglioramenti nell'apparato amministrativo e in particolare in quello della riscossione dei tributi. Sotto Akbar le città, spinte dai commerci anche internazionali, fiorirono. Si stima che in quel tempo il prodotto interno lordo del paese valesse da solo un quarto di quello mondiale e che fosse superiore a quello complessivo europeo. Anche la cultura, la letteratura e l'arte andarono incontro a un periodo particolarmente favorevole. Le più importanti opere d'architettura indiane, come il celebre Taj Mahal, furono realizzate in questo periodo.[62][63]

Il Taj Mahal, uno dei più grandi esempi di architettura del periodo Moghul

Oltre ai successi in campo economico e militare, Akbar è noto anche per gli sforzi in campo religioso in quanto fu impegnato nel far convivere le religioni maggioritarie del regno, come l'induismo professato dalle popolazioni autoctone e l'Islam proprio, invece, dei conquistatori Moghul. Le due religioni erano diversissime, dividendone i fedeli in molteplici campi che spaziavano dal culto dei morti, all'alimentazione, al diritto famigliare, causando spesso tensioni che sfociavano nel sangue. La politica di tolleranza inaugurata da Akbar venne continuata dai suoi successori fino al regno di Aurangzeb il quale, giunto sul trono nel 1658, revocò tutte le disposizioni a favore dell'induismo causando le rivolte dei guerrieri sikh. Con la morte di Aurangzeb, avvenuta nel 1707, si pone convenzionaliste la fine del "periodo classico" dell'India,[64][65] anche se la dinastia Moghul continuò a regnare per oltre un secolo. Gli anni successivi furono contraddistinti da una lenta quanto inesorabile decadenza: le spinte autonomiste delle varie regioni, i conflitti armati interni, la debolezza del potere centrale, furono tutti elementi che portarono la Compagnia britannica delle Indie orientali a penetrare sempre di più nel paese, ottenendo concessioni territoriali che un po' alla volta gli permisero di porre gran parte del subcontinente sotto il proprio dominio.[64]

Asia centrale

Tra il XVI e l'inizio del XVIII secolo, l'Asia centrale si trovava sotto il dominio degli uzbeki mentre le regioni dell'Estremo Oriente erano governate dai pashtun locali. Tra il XV e il XVI secolo, dalle steppe giunsero varie tribù nomadi, tra cui i Kipčaki, i Naiman, i Kangly, i Ongirrat e i Manghud. Questi gruppi erano guidati da Muhammad Shaybani, il Khan degli uzbeki.

Il lignaggio dei pashtun afgani risale alla dinastia Hotaki. In seguito alle conquiste musulmane arabe e turche, i pashtun ghazi (guerrieri per la fede) invasero e conquistarono gran parte dell'India settentrionale durante il periodo della dinastia Lodi e della dinastia Suri. I guerrieri pashtun invasero anche la Persia cogliendo una fondamentale vittoria nella battaglia di Gulnabad. In seguito, i Pashtun fondarono l'Impero Durrani.

America, Australia e Africa dopo l'arrivo degli europei

Planisfero di Cantino con il meridiano tracciato nel trattato di Tordesillas

Dopo l'arrivo dei primi esploratori, i primi a formare un proprio impero coloniale nelle Americhe furono gli spagnoli che si erano stabiliti prevalentemente in Messico e in Perù. I territori del nuovo mondo erano governati da viceré che rappresentavano l'autorità suprema ed erano affiancati da tribunali con potere giudiziario detti Audiencia. I viceré provenivano tutti dalla madrepatria ed erano di nomina regia. Più tardi i portoghesi consolidarono le proprie colonie nell'attuale Brasile (Colonia del Brasile) adottando un sistema amministrativo del tutto simile a quello spagnolo anche se il vicereame venne ufficialmente istituito solo nel 1714. Nella regione i portoghesi riuscirono a creare un florido sistema produttivo basato soprattutto sulle piantagioni di canna da zucchero in cui lavoravano schiavi africani giunti tramite la tratta atlantica. Non mancarono anche lo sfruttamento delle risorse minerarie e in particolare l'estrazione di metalli preziosi quali oro e argento. Altre esportazioni rilevanti furono quelle del cuoio, del cacao, del caffè, del tabacco.[66]

Lo sfruttamento da parte dei coloni della popolazione locale venne mitigata dall'arrivo dei missionari, in particolare appartenenti all'ordine dei gesuiti, che fondarono comunità, dette anche "riduzioni" in cui oltre a tentare di evangelizzare e civilizzare gli indigeni gli si offriva protezione. L'obiettivo dei missionari nel nuovo mondo fu quello di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. La maggior parte di queste comunità sorsero in Brasile, Paraguay, Argentina, Bolivia e Uruguay.[67]

Sebbene il primo europeo a scoprire l'Australia fosse stato l'olandese Abel Tasman negli anni 1640, fu solo dopo l'arrivo dell'inglese James Cook che nacque l'interesse europeo per quella terra. Prima dell'arrivo degli europei, l'Australia era abitata dagli aborigeni australiani che erano cacciatori-raccoglitori. Quando gli inglesi si stabilirono intorno al 1770 fecero dell'Australia una colonia penale dove confinare i criminali più pericolosi e recidivi. Questi vennero impiegati i lavori forzati ma, nel contempo, dettero vita a una forte comunità dotata di spirito imprenditoriale formata soprattutto dai loro discendenti.[68]

Nell'Africa subsahariana prima dell'arrivo degli europei, giunti per razziare schiavi e oro, nel primo millennio si erano formati lungo il Niger alcuni regni (Impero ashanti, regno del Benin, regno del Congo,...) la cui economia si basava prevalentemente sull'agricoltura e su scambi commerciali che partivano dalle coste orientali. Frequenti scontri tribali caratterizzavano la vita di questi regni; cosa che favorì la colonizzazione dei portoghesi, giunti verso la fine del XV secolo[69].

L'Europa nel XVII secolo

Scienza e cultura

Lo stesso argomento in dettaglio: Rivoluzione scientifica e Barocco.
Galileo Galilei che mostra l'uso del cannocchiale al Doge di Venezia

Il XVI e il XVII secolo furono attraversati da una fase di straordinario sviluppo della scienza, tanto che gli stessi contemporanei furono consci di vivere una vera e propria rivoluzione scientifica. L'inizio di questo sviluppo si fa solitamente coincidere con il 1543, data di pubblicazione dell'opera di Niccolò Copernico Sulle rivoluzioni delle sfere celesti con cui si mise in discussione il sistema geocentrico, che poneva la Terra al centro dell'Universo con tutti i corpi celesti che gli ruotavano intorno, a favore di quello eliocentrico in cui al centro vi era invece il Sole. Tale innovazione ebbe ripercussioni profondissime ponendo in crisi molti assiomi della scienza aristotelica ben radicati nella società e negli insegnamenti cristiani. Il lavoro di Copernico trovò molti sostenitori in tutta Europa nonostante la condanna ricevuta da parte della Chiesa di Roma alimentando nuove correnti filosofiche; il filosofo Giordano Bruno pagò con la vita la sua strenua difesa delle nuove idee che andavano circolando.[70][71] I calcoli di Copernico vennero continuati da Giovanni Keplero, che ne fornì una dimostrazione, e da Galileo Galilei che, grazie all'utilizzo del primo telescopio rifrattore, aggiunse ulteriori scoperte come le macchie solari o i satelliti di Giove. Galilei è accreditato dai più anche per essere stato l'iniziatore del metodo scientifico successivamente perfezionato da molti altri scienziati e in particolare dal lavoro i principi matematici della filosofia naturale pubblicato nel 1687 da Isaac Newton.[72][73]

Anche la medicina visse un periodo di grandi innovazioni e in particolare nell'anatomia che beneficiò dell'abrogazione del divieto di dissezione dei cadaveri. Così, già nel 1534, l'anatomista Andrea Vesalio poté pubblicare una serie di tavole anatomiche che mostravano con un dettaglio e una precisione mai raggiunta prima gli organi umani. Verso la fine degli anni 1620 William Harvey pubblicò i suoi lavori con cui descriveva la circolazione del sangue.[74]

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d'Avila. Uno dei migliori esempi di arte barocca

Consci della necessità che tale «accumulo» di sapere che andava a formarsi necessitasse di condivisione, alcuni uomini di scienza e ricchi mecenati fecero nascere in tutta Europa accademie scientifiche ove riunire insieme i più grandi studiosi del tempo; la prima di queste fu l'Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 a Roma e di cui lo stesso Galilei fece parte.[75] Certamente degna di menzione la Royal Society nata nel 1660 a Londra grazie all'iniziativa di John Evelyn e altri accademici allo scopo di promuovere l'eccellenza scientifica come viatico per il benessere della società e ben presto divenuta un «prezioso sistema di comunicazione tra studiosi».[76]

Tra la fine del XVI secolo e l'inizio del successivo in Italia si sviluppò, per propagarsi in tutta Europa, il Barocco, un movimento estetico, ideologico e culturale che influenzò il mondo delle arti, della letteratura, della musica. L'arte barocca fiorì a Roma grazie alle eminenti opere di artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da Cortona anche se lo snodo fondamentale fu costituito dall'opera di Caravaggio. Nucleo pulsante della nuova sensibilità è la tensione dinamica, che si esprime in una ricca gamma di soluzioni stilistiche: l'andamento curvilineo dei corpi architettonici, il sistematico ricorso alla figura bifocale dell'ellisse, l'adozione della colonna tortile e del frontone "rotto", la plastica concitazione delle figure, il rigoglio vaporoso dei drappeggi, la proliferazione dell'ornamento, la dilatazione pittorica delle superfici. Per quanto riguarda la letteratura barocca, gli autori frequentarono con disinvoltura tutti i generi letterari, dal poema alla lirica, dal dramma al romanzo, dalla cronaca di viaggio al saggio erudito, con coraggioso sperimentalismo. La musica barocca solitamente compre un arco di tempo più vasto ma tra i più importanti compositori del Seicento troviamo, oltre a Claudio Monteverdi a cui si attribuisce la nascita dell'opera e il superamento della musica rinascimentale, Arcangelo Corelli, Alessandro Stradella, Dietrich Buxtehude, Heinrich Schütz, Jacques Champion de Chambonnières (considerato il fondatore della scuola clavicembalistica francese), Sigmund Theophil Staden e Johann Jakob Froberger.

La guerra dei trent'anni

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei Trent'anni.
La defenestrazione di Praga del 1618 fu l'evento che segnò l'inizio della guerra dei trent'anni

Con la pace di Augusta del 1555 si era raggiunta una tregua in Germania tra cattolici e protestanti. Questa però era molto instabile, tanto che dopo un paio di decenni la situazione andò a deteriorarsi. Sulla scia della controriforma e a seguito dell'intensa predicazione dei Gesuiti la fazione cattolica divenne sempre più rigida e intollerante verso i protestanti che, in ottica difensiva, si riunirono dell'unione evangelica; i cattolici risposero associandosi nella lega cattolica. Un tale clima, dominato da fanatismi e intransigenze dottrinali, ebbe ripercussioni anche sulle comunità ebraiche, che subirono persecuzioni e sul fenomeno della caccia alle streghe che si intensificò.[77]

La situazione precipitò con la salita al trono di Boemia di Ferdinando II d'Asburgo, fervente cattolico e destinato a divenire imperatore. Le continue vessazioni a cui furono sottoposti i nobili protestanti spinsero alcuni di loro ad assaltare il castello di Praga e a gettare dalla finestra alcuni governatori imperiali; poco dopo la Dieta di Boemia elesse come proprio sovrano Federico V del Palatinato, capofila dell'unione evangelica: era così iniziata la guerra dei trent'anni. Come reazione la lega Cattolica scese in guerra e, guidata dal conte di Tilly, sconfisse pesantemente i protestanti nella battaglia della Montagna Bianca combattuta nel 1620.[78]

Il sacco di Magdeburgo fu uno degli eventi più sanguinosi della guerra

In breve tempo la guerra, iniziata come un conflitto tra protestanti e cattolici, arrivò a coinvolgere tutti gli Stati europei. La cattolica Spagna scese immediatamente in campo a fianco degli imperiali provocando l'ingresso nello scenario della Repubblica delle Sette Province Unite e dell'Inghilterra dalla parte dei protestanti. Federico V del Palatinato trovò l'appoggio anche di Cristiano IV di Danimarca. L'ampliamento del conflitto non mutò tuttavia le sorti di questi primi anni di guerra, con gli eserciti imperiali, aiutati anche dalla guida i Albrecht von Wallenstein, continuarono a cogliere vittorie tanto che Ferdinando d'Asburgo, ora divenuto imperatore, si sentì talmente forte da emanare nel 1629 l'editto di Restituzione con cui i protestanti venivano obbligati a restituire i beni ecclesiastici, secolarizzati dopo il 1552. La paura dell'eccessivo potere che la dinastia asburgica stava acquisendo, spinse il Regno di Svezia, su pressioni della Francia del cardinale Richelieu, a scendere direttamente in campo a favore della fazione protestante.[79]

L'entrata della Svezia, nonostante la morte in battaglia del re Gustavo II Adolfo, cambiarono le sorti della guerra a favore dell'unione evangelica. Tale situazione di vantaggio fece scendere in campo direttamente anche la Francia, cosicché l'ultima fase del conflitto prese i connotati della continuazione della rivalità franco-asburgica per l'egemonia sulla scena europea.[80]

Secolo d'oro olandese

Lo stesso argomento in dettaglio: Secolo d'oro olandese.
Un vascello della Compagnia olandese delle Indie orientali in arrivo a Città del Capo

La ribellione iniziata nel 1566 contro la Spagna portò le province settentrionali dei Paesi Bassi nel 1581 a dichiararsi indipendenti dalla sovranità di Filippo II e a dare vita alla Repubblica delle Sette Province Unite. Nel nuovo Stato ogni città mantenne la propria sostanziale autonomia garantite da forme di autogoverno pur riconoscendo gli Stati Generali come organo supremo a cui partecipavano rappresentanti di ogni provincia con uguale diritto di voto anche se l'Olanda di fatto vantava una incontrastata superiorità. L'indipendenza comportò enormi benefici nelle tradizionali attività di commercio via mare, già peraltro ben floride.[81]

La necessità di avventurarsi in imprese commerciali complesse e talvolta pericolose diede l'impulso alla fondazione della Compagnia olandese delle Indie orientali. Nata nel 1602 dalla fusione di dieci precedenti compagnie, essa è considerata una delle prime società per azioni della storia e a lei venne affidato in regime di monopolio, che nella teoria economica del tempo era giudicato un sistema auspicabile, tutto il commercio con i popoli dell'oceano indiano. La compagnia, dotata di una propria flotta e di propri uomini armati, raggiunse un potere eccezionale, non solo economico ma addirittura politico. Sull'esempio dei suoi enormi guadagni venne fondata anche la Compagnia olandese delle Indie occidentali che, tuttavia, ebbe minor fortuna.[82]

Un così prospero sviluppo commerciale non poté non prescindere dalla presenza di avanzate istituzioni finanziarie. I titoli di credito, già scambiati fin dal Medioevo, divennero uno strumento abituale di mercanti e banchieri; nel 1609 venne fondata la Amsterdamsche Wisselbank (banca dei cambi di Amsterdam), una vera e propria banca pubblica, il cui modello venne replicato anche altrove. Negli stessi anni aprì agli scambi finanziari la borsa di Amsterdam in cui si negoziavano lettere di cambio, titoli di debito pubblico e azioni delle compagnie, talvolta dando vita anche a fenomeni puramente speculativi.[83] Il commercio non fu, tuttavia, l'unico protagonista dell'economia delle Province Unite: industria, cantieristica navale, settore tessile, lavorazione dei diamanti, agricoltura e produzione di birra e distillati, furono tutti settori di grande redditività. Un diffuso benessere economico a sua volta spingeva i consumi e dunque l'economia in generale; mobili, tappeti, tessuti ricercati, oggetti ornamentali, quadri, ecc. non si trovavano solamente nelle case dei ricchi ma anche il ceto medio poteva disporne.[84]

Rembrandt, Ronda di notte (1642)

Ma non solo l'economia caratterizzò il Secolo d'oro olandese, la tolleranza religiosa e il cosmopolitismo furono gli artefici anche di un marcato dinamismo culturale. Ogni villaggio disponeva di una propria scuola mentre l'istruzione superiore era garantita dalla presenza di cinque università di cui quella di Leida era la più importante. Amsterdam divenne uno dei più importanti centri editoriali dove si potevano pubblicare opere che nel resto dell'Europa venivano bandite. La pittura del Secolo d'oro olandese ebbe compre protagonisti di tantissimi artisti tra cui Rembrandt, Frans Hals, Jan Vermeer. Nel campo giuridico, Ugo Grozio teorizzò un diritto valido universalmente, gettando le badi per il diritto internazionale e costituendo un caposaldo del pensiero giuridico moderno, mentre il filosofo Benedetto Spinoza è considerato uno dei maggiori esponenti del razionalismo, antesignano dell'Illuminismo e della moderna esegesi biblica.[85]

Guerra civile inglese e le sue conseguenze

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile inglese e Gloriosa rivoluzione.
Vittoria del New Model Army parlamentarista alla battaglia di Naseby (14 giugno 1645)

Essendo Elisabetta I d'Inghilterra senza figli, alla sua morte il trono andò al re di Scozia Giacomo Stuart che unì le corone. Il suo regno fu contrassegnato da difficoltà finanziare dovute alle ingenti spese militari e al mantenimento di una sfarzosa corte, a cui il re rispose aumentando le imposizioni fiscali generando così malcontento nei propri sudditi.[86] Tali problemi continuarono anche con suo figlio e suo successore, Carlo I d'Inghilterra, la cui politica religiosa relativamente vicina alla chiesa cattolica servì solo ad aggravare la distanza tra la corona e il popolo.[87] Inoltre, Carlo si trovò a dover chiedere nuovi finanziamenti al parlamento inglese per far fronte agli scozzesi che si erano armati contro di lui per sostenere alcune loro rivendicazioni. Il parlamento prese l'occasione per chiedere al re in cambio alcune prerogative ma Carlo rispose sciogliendolo momentaneamente. Una volta riconvocato, i rapporti con il sovrano non mutarono certamente in meglio, tanto che Carlo tentò, senza successo di far arrestare alcuni parlamentari particolarmente ostili scatenando la furia dei cittadini di Londra già sollevatisi contro la corona a seguito di una crisi commerciale che stava attanagliando la città: la guerra civile inglese ebbe così inizio.[88]

Ritratto di Oliver Cromwell, lord protettore d'Inghilterra dopo la guerra civile

Nella battaglia di Naseby del 1645 l'esercito realista venne pesantemente sconfitto da quello repubblicano guidato da Oliver Cromwell e lo stesso sovrano dovette consegnarsi agli scozzesi per trovare salvezza. Fuggito, venne nuovamente sconfitto e questa volta cadde prigioniero. Dopo essere stato processato finì per essere decapitato nel palazzo di Whitehall nel 1649; poco dopo venne abolita la camera dei Lord e proclamato il Commonwealth of England.[89] Assunto il titolo di lord protettore, Cromwell in realtà instaurò un regime di dittatura militare confermando comunque le sue doti di leader riuscendo in breve tempo a pacificare la Scozia, a soffocare le rivolte in Irlanda e a ristabilire l'ordine in Inghilterra; sotto il suo comando l'esercito inglese vinse la prima guerra anglo-olandese facendo ottenere al paese importati accordi commerciali. Inoltre, grazie anche a un'alleanza con la Francia, sconfisse la Spagna in un conflitto protrattosi dal 1655 al 1660. Alla sua morte, avvenuta nel 1658, le redini del regime vennero prese dal figlio Richard che tuttavia si dimise dalla carica solamente due anni più tardi conscio non riuscire a far fronte alle evidenti instabilità del suo potere. A seguito di ciò il parlamento restaurò la monarchia e la dinastia Stuart consegnando il trono a Carlo II, il figlio del re giustiziato undici anni prima.[90]

Morto nel 1685 Carlo, ci si trovò con il problema della successione al trono: una parte del Parlamento, appartenente al partito Whig, non voleva che il fratello minore del defunto re, Giacomo, prendesse il potere in quanto apertamente cattolico, mentre i Tory sostenevano la necessità di rispettare la linea di successione. Alla fine, il 23 aprile 1685, Giacomo II venne incoronato. Il suo regno iniziò subito con atti di dispotismo creando forti malcontenti. I dissidenti si rivolsero a Guglielmo III d'Orange, marito della primogenita del re, che il 5 novembre 1688 sbarcò a Torbay costringendo Giacomo II a trovare rifugio in Francia. Il parlamento incoronò come nuovi sovrani Guglielmo e la moglie Maria II congiuntamente e poco dopo, nel 1689, emanò il Bill of Rights, considerato ancora oggi uno dei cardini del sistema costituzionale del Regno Unito, con cui il paese divenne una monarchia costituzionale. La cosiddetta "Gloriosa rivoluzione" fu così compiuta.[91]

L'età dei lumi e delle rivoluzioni

Assolutismo e società dell'Ancien Régime

Lo stesso argomento in dettaglio: Assolutismo monarchico e Ancien Régime.
Luigi XIV di Francia, tipico esempio di assolutismo monarchico

Nei secoli XVII e XVIII in molti stati l'Europa andò ad affermarsi un sistema politico, conosciuto come assolutismo monarchico, caratterizzato dalla presenza al vertice di governo di un monarca detentore unico dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario secondo la giustificazione del "diritto divino dei re". In questo contesto il sovrano si dichiarava superiore a qualsiasi legge e senza altra autorità, né temporale né spirituale, sopra di egli. Tale situazione fu la conseguenza di alcuni processi già iniziati già secoli addietro in pieno basso medioevo, tra cui la conquistata supremazia della corona sulla nobiltà sempre più relegata a un ruolo di secondo piano e alla non più distinzione tra il potere civile e quello religioso.[92][93] Teorizzato anche da celebri filosofi del tempo, come Jean Bodin e Thomas Hobbes, l'assolutismo ebbe fortissime ripercussioni sulla società civile del tempo sempre più stratificata in diverse classi con privilegi, anche giuridici, differenti.[94] Tuttavia vi furono anche ulteriori forme di governo diverse come la monarchia costituzionale presente in Inghilterra, l'oligarchia nella repubblica di Venezia o il feudalesimo aristocratico in Polonia.[95]

Disegno satirico sulla società di Ancien Régime che mostra come il Terzo Stato porta sulle sue spalle il Secondo Stato (il clero) e il Primo Stato (la nobiltà)

La società di Ancien Régime, come viene solitamente conosciuto questo sistema, fu caratterizzata da diversi aspetti. Innanzitutto si deve osservare che l'Europa del XVIII secolo conobbe un progressivo sviluppo demografico che portò la popolazione quasi a raddoppiare, passando dai quasi 118 milioni a 193, con Londra, Parigi e Napoli le città più popolose. Le cause furono molteplici e non tutte ancora ben individuate: se l'improvvisa scomparsa della peste, gli ultimi focolai furono a Marsiglia nel 1720 e a Messina nel 1743, giocò certamente un ruolo nella riduzione della mortalità, il perdurare di epidemie di tifo, dissenteria e influenza continuavano a mietere vittime.[96] La popolazione era rigidamente divisa in ceti sociali riassumibili in nobiltà, clero e contadini; ogni ceto aveva i propri diritti civili e le possibilità di migliorare il proprio status erano assai ridotte. Tale sistema rappresentava "qualcosa di fisso, di eternamente valido".[97] L'agricoltura era l'attività che vedeva impegnate la maggioranza della popolazione. Sebbene qualche contadino fosse riuscito a raggiungere una certa prosperità, la maggioranza di essi conduceva una vita misera spesso relegata alla mera sussistenza e forme simili alla servitù della gleba erano ancora presenti accanto ai privilegi dei ricchi nobili proprietari terrieri. La mezzadria era il contratto agrario più diffuso anche se talvolta si ricorreva anche all'enfiteusi.[98] Le rivolte dei contadini furono frequenti: una di queste, scoppiata nel 1775 in Boemia permise di ottenere una serie di riforme contro la schiavitù mentre poco prima vi era stata la rivolta di Pugačëv in Russia.[99] Il clero, il secondo ceto, era assai numeroso arrivando, in alcune regioni, a comprendere oltre il 5% della popolazione. La nobiltà rappresentava la classe dirigente e godeva di numerosi privilegi. Era anche una classe molto statica: vincoli sulla trasmissione del patrimonio famigliare, come l'istituto del fedecommesso, la resero comunque meno attiva nel panorama economico dove perse man mano il ruolo di protagonista.[100]

Nonostante l'apparente immobilismo, la società settecentesca vide al suo interno anche grandi evoluzioni. Una di queste fu legata alla condizione femminile che andò incontro a moderati miglioramenti. Maggiore, infatti, fu l'attenzione agli affetti coniugali, al preservare la donna da eccessive gravidanze, a consentirgli un maggiore controllo della vita affettiva e sessuale. Anche all'educazione dell'infanzia venne prestato maggior interesse. Per ultimo, il diffondersi delle idee illuministiche rappresentò uno spartiacque che alla fine del secolo porterà alla crisi dell'intero sistema di antico regime.[101]

L'Illuminismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Illuminismo.
Dipinto di Charles Gabriel Lemonnier rappresentante la lettura della tragedia di Voltaire, in quel tempo esiliato, L'orfano della Cina (1755), nel salotto di Marie-Thérèse Rodet Geoffrin. I personaggi più noti riuniti intorno al busto di Voltaire sono Rousseau, Montesquieu, Diderot, d'Alembert, Buffon, Quesnay, Richelieu e Condillac.

Nel corso del XVIII secolo, in Europa, si sviluppò un vasto movimento noto come "illuminismo", caratterizzato da una visione razionale del mondo e da una fiducia verso un processo di liberazione dell'uomo dalla superstizione e dal pregiudizio. La religione, non solo cattolica, fu bersaglio di molte critiche e accuse poiché vista come responsabile delle "tenebre" che hanno offuscato la storia umana e a cui i "lumi della ragione" avrebbero potuto porre rimedio.[102][103] Nato in Inghilterra ma avente in Francia il suo centro diffusivo, l'illuminismo non ebbe un unico orientamento ma è innegabile l'uniformità di alcuni suoi elementi più caratteristici come il laicismo, il rifiuto dei dogmi, la razionalità e la fiducia nel progresso.[104] Alcuni dei più importanti esponenti, come Voltaire, Montesquieu e Fontenelle, affermarono essersi ispirati a quella filosofia inglese fondata sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica, elementi essenziali del pensiero di Locke e di Newton e David Hume che risalivano a loro volta a quello di Francesco Bacone.[105]

Frontespizio dell'Encyclopédie, la monumentale opera simbolo del nuovo sapere dell'Illuminismo

Figura chiave del movimento fu quella dell'intellettuale, non più soggetto a un mecenate, ma in grado di vivere del proprio lavoro. Suoi strumenti d'eccellenza furono le pubblicazioni accademiche, le riviste, i pamphlets che videro il loro periodo d'oro,[106] mentre i loro luoghi d'incontro furono i caffè e i salotti letterari dove altolocati membri dell'alta borghesia o dell'aristocrazia riformista gli invitavano per conversare e dibattere temi d'attualità.[107] Molteplici furono i campi di indagine esplorati dagli illuministi: se Montesquieu teorizzò la politica della separazione dei poteri nel suo trattato Lo spirito delle leggi l'eclettico Voltaire si occupò molto di storia, mentre lo svizzero Jean-Jacques Rousseau, celebre per il suo contratto sociale, dedicò larga parte dei suoi studi alla musica e alla pedagogia. Per molti François Quesnay, teorico della fisiocrazia, fu il padre dell'economia politica che riprese gli studi sul libero mercato.[108] In Italia i fratelli Pietro e Alessandro Verri furono gli artefici della pubblicazione de Il Caffè a cui partecipò anche Cesare Beccaria celebre per il suo dei delitti e delle pene in cui si criticava l'uso della tortura e della pena di morte.[109]

Emblema dell'illuminismo francese sarà la grandiosa opera dell'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che in 35 volumi, pubblicati dal 1751 al 1780, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert, diffonderà i principi illuministici non solo in Francia ma, attraverso numerose traduzioni, in tutta Europa. Gli illuministi contestavano soprattutto i dogmi della chiesa in quanto diceva cose non vere secondo la ragione umana. Infatti la chiesa per non essere giudicata mise all'indice molti dei libri illuministi.[110]

Il movimento illuminista arrivò a influenzare anche molti sovrani che abbracciarono alcuni dei loro programmi riformatori. Tra i monarchi illuminati si ricorda Federico II di Prussia, grande amico di Voltaire, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e Pietro Leopoldo di Toscana fautore del codice leopoldino con cui si aboliva per la prima volta al mondo la pena di morte. Questi sovrani si contraddistinsero per le moderne riforme intraprese volte a rendere più efficiente e razionale l'apparato amministrativo del proprio stato; su questa linea vennero migliorare le strutture organizzative, ottimizzato il prelievo fiscale anche grazie all'introduzione del catasto dei beni terrieri e immobiliari. Venne agevolato il settore agricolo che trasse beneficio dall'abolizione di alcune antiche consuetudini feudali che ne limitavano lo sviluppo. Non si volle, tuttavia, modificare il sistema di privilegi propri della nobiltà in quanto era proprio su di essi che si legittimava il potere sovrano. Un ampio interesse riformistico fu dedicato ai rapporti con le chiese nazionali su cui venne aumentato il controllo statale in un processo noto come "giurisdizionalismo"; in particolare vennero limitati i numerosi privilegi degli ecclesiastici e combattuto il "parassitismo" degli ordini religiosi contemplativi.[111]

Le guerre del XVIII secolo

La battaglia di Ramillies tra francesi e inglesi del 23 maggio 1706 nel contesto della guerra di successione spagnola

Gran parte del XVIII secolo fu contraddistinto da conflitti armati intercorsi tra le potenze europee, scoppiati perlopiù a causa dei commerci internazionali e per questioni dinastiche in quanto tutte le dinastie regnanti erano imparentate tra di loro e dunque tutte avevano legittime rivendicazioni quando una linea di successione si esauriva.[112] A differenza delle guerre di religione del secolo precedente, i conflitti del XVIII secolo furono sostanzialmente meno sanguinosi. Questi furono prevalentemente combattuti da eserciti permanenti, dotati di un'imponente organizzazione burocratica e composti da soldati professionisti sottoposti a una durissima disciplina.[113]

Nel 1700 Carlo II di Spagna morì senza discendenti ponendo fine al ramo degli Asburgo di Spagna; il suo testamento a favore di Filippo di Borbone, nipote del re Luigi XIV di Francia, trovò l'opposizione di Inghilterra, Repubblica delle Sette Province Unite e Austria preoccupate per la possibile unione delle corone di Francia e Spagna. Il conflitto che ne seguì causò lo smembramento di gran parte dell'Impero spagnolo oramai sul viale del tramonto dopo un periodo di grande prosperità. Un nuovo scontro per motivi dinastici tra Asburgo e Borbone fu la guerra di successione polacca scoppiata nel 1733 alla morte di Augusto. Nonostante che il conflitto terminò con l'ascesa al trono di Augusto III di Polonia, sostenuto dagli Asburgo, fu l'alleanza franco-ispano-sabauda a beneficiare di diverse espansioni territoriali. La guerra di successione austriaca iniziò nel 1740 quando l'imperatore Carlo VI d'Asburgo morì improvvisamente lasciando il trono d'Austria alla figlia Maria Teresa secondo quando disposto dalla Prammatica Sanzione del 1713. Anche questo conflitto comportò diverse modifiche nell'assetto geopolitico europeo.[114]

Se la prima metà del Settecento fu contraddistinta dalle guerre di successione, la seconda si aprì con un conflitto, causato da motivi prevalentemente economici, di così vasta scala che Winston Churchill lo definirà come la «prima vera guerra mondiale», in quanto combattuta non solo in Europa ma anche nelle colonie di nelle Americhe, in Asia e in Africa occidentale. Scoppiata a causa della invasione prussiana della Sassonia, la guerra dei sette anni vide il trionfo dell'Inghilterra come potenza navale a spese della Francia che vide le sue ambizioni coloniali oramai al tramonto perdendo i suoi territori corrispondenti all'odierno Canada, quelli in India, nei Caraibi e sulla costa del Senegal.[115][116] Dopo l'inconcludente guerra contro la Svezia, la Russia di Caterina II iniziò una campagna contro gli Ottomani erigendosi a protettrice della cristianità ortodossa contro la minaccia islamica.[117][118]

L'Inghilterra fu certamente la potenza che uscì maggiormente rafforzata dalle guerre del Settecento, soprattutto sui mari, tuttavia non fu l'unica. La guerra dei sette anni sancì definitivamente l'ascesa del Regno di Prussia di Federico il Grande, già protagonista del conflitto per la successione austriaca. Federico era riuscito a creare un vero Stato militare tanto che i contemporanei descrivevano la Prussia non come «uno Stato con un esercito ma un esercito con uno Stato». Ma il regno di Federico non fu solo questo: i prussiani riuscirono a mettere in piedi lucrosi scambi commerciali con il Baltico mentre la tolleranza religiosa aveva permesso l'arrivo di molti artigiani ugonotti scappati dalla Francia che contribuirono allo sviluppo manifatturiero.[118][119] In Italia, l'abilità di Vittorio Amedeo II di Savoia premise al ducato sabaudo di affermarsi come piccola ma concreta potenza; ottenuta la Sardegna nel 1718 in cambio della cessione all'Austria della Sicilia, Vittorio Amedeo prese il titolo di Re di Sardegna.[117]

Prima rivoluzione industriale

Lo stesso argomento in dettaglio: Rivoluzione industriale e Rivoluzione industriale in Inghilterra.
Illustrazione del 1747 di una fabbrica tessile

Grazie all'espansione dei commerci internazionali, nel corso del Settecento si assistette a una crescita della domanda di prodotti che stimolò il passaggio da una produzione artigiana a quella manifatturiera. La rivoluzione industriale che ne scaturì fu un processo di evoluzione economica che da un sistema agricolo-artigianale-commerciale basato sul sistema corporativo portò a un sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili). Iniziata in Inghilterra intorno agli anni 1760, riguardò prevalentemente il settore tessile-metallurgico e comporta l'introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore.[120]

La rivoluzione industriale comportò una profonda e irreversibile trasformazione che parte dal sistema produttivo fino a coinvolgere il sistema economico nel suo insieme e l'intero sistema sociale. L'apparizione della fabbrica e della macchina modificò i rapporti fra gli attori produttivi. Nacque così la classe operaia che riceve, in cambio del proprio lavoro e del tempo messo a disposizione per il lavoro in fabbrica, un salario. Contemporaneamente si affermò anche un ceto borghese dotato di mentalità imprenditoriale, spirito di iniziativa e propensione al rischio che dette vita al capitalismo industriale, imprenditore proprietario della fabbrica e dei mezzi di produzione, che mira a incrementare il profitto della propria attività.[121]

La rivoluzione industriale ebbe enormi implicazioni sociali. Grazie all'utilizzo di fonti di energia trasportabili, come il carbone, le fabbriche vennero costruite nelle città provocando una sostanziale emigrazione di contadini dalle campagne che si ritrovarono a vivere in condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene. La necessità di trasportare materiali, spesso pesanti, comportò un miglioramento senza precedenti delle vie di comunicazione. L'innovazione tecnologica andò incontro a un rapido sviluppo grazie all'introduzione di nuove tecnologie: nel 1784 Henry Cort brevettò un sistema di puddellaggio che consentì l'ottenimento di ghisa di alta qualità mentre, poco dopo, Edmund Cartwright inventò il telaio meccanico.[122]

La Rivoluzione americana

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'indipendenza americana.
La presentazione della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America

Alla fine della guerra dei sette anni la costa occidentale dell'America del Nord, che si estendeva dal Canada alla Florida, era divisa tra le tredici colonie britanniche. Sebbene ogni colonia fosse contraddistinta da una diversa composizione sociale e da un diverso sistema produttivo, complessivamente la loro vita culturale e economica poteva dirsi assai vivace. Filadelfia, Boston e New York erano le città principali e la popolazione era in progressiva crescita passando dai circa due milioni di abitanti nel 1770 ai quasi tre milioni di dieci anni dopo. Commercialmente esse dipendevano tuttavia dal governo di Londra: tutte le merci esportate dovevano passare prima dalla Gran Bretagna e la loro libertà imprenditoriale era limitata per evitare di entrare in concorrenza con la madrepatria. Nel tentativo di guadagnare autonomia, le colone si erano dotate di assemblee legislative elette dai cittadini che, nonostante avessero conquistato anche ampi poteri nel tempo, non erano riuscite ad affermarsi come confidato scontrandosi spesso con i rappresentanti del governo centrale. Quando la madrepatria decise di aumentare il prelievo fiscale le colonie reagirono duramente invocando il principio di "nessuna tassazione senza rappresentanza" in quanto nessun loro rappresentante sedeva presso il parlamento.[123]

La situazione degenerò quando il 16 dicembre 1773 vi fu un atto di protesta da parte dei coloni, passato alla storia come il Boston Tea Party, che portò le autorità britanniche a ritirare qualsiasi autonomia concessa al Massachusetts. Nell'aprile del 1775 iniziarono i primi scontri armati e le colonie istituirono un esercito comune la cui guida venne affidata a George Washington. Il 4 luglio 1776, il secondo congresso continentale, tenutosi a Filadelfia, dichiarò l'indipendenza della nazione chiamata "Stati Uniti d'America" con la Dichiarazione d'indipendenza, scritta da Thomas Jefferson. Essa venne creata secondo i principi repubblicani che enfatizzavano i doveri pubblici e aborrivano la corruzione e i diritti ereditari nobiliari; nella sua stesura non mancarono chiari riferimenti alla Magna Carta, agli ideali illuministici e al contrattualismo di John Locke.[124][125]

Inizialmente i coloni ribelli subirono la maggior organizzazione e potenza militare dell'esercito del Regno di Gran Bretagna ma poi, grazie a una maggiore esperienze e all'aiuto da parte di molte potenze europee in concorrenza con l'Inghilterra, riuscirono a cogliere nella battaglia di Saratoga del 1777 una prima decisiva vittoria che cambiò le sorti del conflitto. Il trattato di Parigi, firmato nel 1783, pose ufficialmente fine alla guerra dopo quasi otto anni di combattimenti con il riconoscimento ufficiale dell'indipendenza delle oramai ex colonie. Nel 1787, sempre a Filadelfia, una assemblea costituente a cui partecipavano i rappresentanti di tutti i tredici Stati approvò, dopo due mesi di lavori, la costituzione del neonato Stato. Nel 1789 George Washington assunse la carica di primo presidente degli Stati Uniti d'America.[126]

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Cristoforo colombo

Cristoforo Colombo (in genovese Cristoffa Combo, in latino Christophorus Columbus, in spagnolo Cristóbal Colón; Genova, tra il 26 agosto e il 31 ottobre 1451[2][3] – Valladolid, 20 maggio 1506) è stato un navigatore ed esploratore italiano della Repubblica di Genova, attivo in Portogallo e in Spagna come capitano di mare al comando su navi mercantili, tra i più importanti[4] protagonisti delle grandi scoperte geografiche europee a cavallo tra il XV e il XVI secolo. In particolare, deve la sua fama per esser stato il primo ad intraprendere la rotta atlantica che portò le potenze europee alla scoperta e alla colonizzazione delle Americhe.

La sua idea iniziale fu di raggiungere l'Asia orientale, le cosiddette "Indie", compreso il Catai (Cina) e il Cipango (Giappone), circumnavigando la Terra da occidente, ovvero dall'Oceano Atlantico. Arrivando invece in America centrale, il navigatore fu convinto, negli anni successivi, che quelle fossero sì delle nuove terre, ma sempre asiatiche, a tal punto che furono chiamate per molto tempo "Indie occidentali". Fu poi il navigatore Amerigo Vespucci che, nei primi anni del XVI secolo, scoprì che si trattava invece di un nuovo continente, inizialmente chiamato "Nuovo Mondo", quindi, in suo onore, fu rinominato dai cartografi "America".

Dapprima Colombo chiese i finanziamenti per le sue esplorazioni al re Giovanni II del Portogallo, ma i fondi gli furono negati e tentò allora con i re cattolici di Spagna (Castiglia e Aragona), i quali, dopo le trattative, e soprattutto grazie all'appoggio di Isabella di Castiglia, accettarono di finanziare l'impresa e di concedergli alcuni privilegi nel caso in cui l'esito fosse risultato positivo. Salpato da Palos de la Frontera (Spagna) il 3 agosto 1492, giunse su un'isola delle Bahamas, che battezzò San Salvador, il 12 ottobre dello stesso anno. A tale primo viaggio ne seguirono poi altri tre, di minor fortuna, portandolo gradualmente al discredito ed alla privazione di molti dei riconoscimenti e dei titoli che egli avrebbe sperato, per sé e per i suoi figli, da parte dei sovrani del Regno di Castiglia e León, dove morì nel 1506 nell'allora capitale, Valladolid. Nemmeno nelle nuove terre scoperte gli fu dedicato qualche importante toponimo; questo almeno fino al 1819, quando il politico venezuelano Francisco de Miranda propose il nome di "Colombia" per indicare il nuovo stato indipendente sudamericano e rendere finalmente omaggio all'importante navigatore[5].

Giovinezza

Lo stesso argomento in dettaglio: Origini di Cristoforo Colombo e Case di Cristoforo Colombo.
Colombo giovinetto, scultura di Giulio Monteverde situata a Genova, nel castello d'Albertis

Cristoforo fu il primogenito di quattro figli (tre maschi e una femmina)[6] di Domenico Colombo e Susanna Fontanarossa, gestori dapprima di una piccola azienda tessile e successivamente, in seguito al trasferimento a Savona, di un negozio di vini e formaggi[7].

Genova, resti della costruzione settecentesca in Vico Diritto di Ponticello, dove Colombo abitò fra i quattro e i nove anni. Vi è stato ricavato un memoriale
Cogoleto, casa natale di Cristoforo Colombo. La casa si trova in Via Rati (anticamente Contrada Caroggio). In questa casa Domenico Colombo, padre di Cristoforo, ha fatto testamento in data 23 agosto 1449

La casa genovese, sita in Vico Diritto di Ponticello angolo Via Dante nel quartiere Portoria, vicino a San Vincenzo di Genova, venne distrutta durante il bombardamento navale francese del 1684, e fu quindi ricostruita nei decenni successivi[8][9].

Altre fonti lo danno nato sempre nella Città metropolitana di Genova, ma questa volta a Cogoleto, presso Via Rati 28. Secondo questa versione, Cristoforo Colombo avrebbe lasciato molto presto Cogoleto per intraprendere la via del mare.[10] Assumono grande importanza anche le parole scritte da Cristoforo Colombo nel 1501, in una lettera indirizzata ai reali di Spagna, in cui egli così si esprime: "Muy altos Reyes: de muy pequena hedad entre en la mar navegando y lo he continuato

fasta oy".[11] Di fatto Colombo afferma di aver iniziato a navigare sin dalla giovanissima età e di non aver fatto altro. Quindi Cristoforo Colombo di Genova, poi trasferitosi a Savona, non potrebbe essere lo scopritore: infatti, come attestano i documenti conservati nella Sala Colombiana dell'Archivio di Stato di Genova, nel periodo 1470/1472 quest'ultimo è ancora sotto tutela paterna ed esercita l'arte di tessitore di panni.[12]

Altre versioni ancora lo danno nato sempre in altre località della Riviera di Ponente ligure, ma i documenti storici sono scarsi. Fonti più certe confermano comunque i primi anni d'infanzia sicuramente a Vico Diritto di Ponticello di Genova, e le informazioni storiche diventano ancor più attendibili a partire dal 1470, quando la famiglia si trasferì a Savona, dove rimase almeno fino al 1484, prima presso Contrada San Giuliano (Via dei Cassari), in una casa oggi inesistente, poi nel quartiere Legino, in un podere situato in Via Belvedere di Valcada[13].

Pare che il giovane Colombo non frequentasse la scuola, ma tutte le nozioni gli furono impartite dal padre, che voleva avviarlo al proseguimento dell'attività commerciale. Cristoforo però, insieme al fratello Bartolomeo, si interessò principalmente di geografia e cartografia[14]; inoltre, soprattutto durante il periodo savonese, si dedicò ad esercitarsi alla navigazione marittima. Egli stesso affermò, in una sua lettera, di aver già cominciato a navigare a Genova, all'età di quattordici anni[15].

L'occasione per le sue imprese navali arrivò nel 1472 quando, contro il parere del padre, accettò di entrare nelle flotte al soldo del Re Reynel Renato d'Angiò per contrastare le navi aragonesi nel Mediterraneo occidentale, quindi di lavorare come mercante marittimo al servizio delle famiglie genovesi Centurione, Di Negro, Imperiali e Spinola[16]. In questo periodo, per le sue ottime qualità, ottenne il grado di Comandante di Vascello, imparando velocemente il castigliano e il portoghese. Nel 1473 partì alla volta dell'isola di Chio in Grecia, navigando con la Roxana, e lì vi abitò per circa un anno[17], alternando dei periodi di navigazione nell'Egeo, nel Mediterraneo, le coste del Portogallo e brevi ritorni in Liguria. Durante i suoi viaggi latinizzò il suo nome (com'era usanza del tempo) nelle firme che poneva su lettere e documenti; in seguito utilizzò come firma anche il nome in lingua castigliana, ovvero Cristóbal Colón.[18].
Il 31 maggio 1476 partì da Noli (SV) sulla Bechalla della repubblica marinara di Genova, comandata da Cristoforo Salvago, insieme a tre galeazze di Squarciafico, Di Negro e Goffredo Spinola, più la baleniera del fratello Nicolò Spinola[19], tutte dirette nelle Fiandre (nell'attuale Belgio), e poi a Bristol, in Inghilterra.
Lungo la rotta però, la flotta fu attaccata da corsari francesi al largo di Capo Vincenzo (Portogallo), dove Colombo riuscì a rifugiarsi a Lagos, nel Portogallo meridionale[20]. Da lì, qualche mese dopo riuscì a ripartire alla volta di Galway (Irlanda), raggiungendo anche l'Islanda, probabilmente nella primavera del 1477[21].

La via per le Indie

Cristoforo Colombo in ginocchio davanti alla regina Isabella di Castiglia

Nel 1478 Colombo tornò in Portogallo, vivendo temporaneamente a Lisbona, dove suo fratello Bartolomeo già lavorava come cartografo, per curare i commerci della famiglia Centurione. Basandosi sulle mappe, sui racconti dei marinai e sui reperti (canne, legni e altro) trovati al largo delle coste delle isole del "Mare Oceano" (antico nome dell'Oceano Atlantico), cominciò a convincersi che al di là delle Azzorre dovesse esserci una terra continentale e che questa non potesse essere altro che quella delle "Indie", ovvero l'Asia, che comprendeva quindi anche il Catai (Cina) e il Cipango (Giappone) descritti da Marco Polo, rendendosi essa raggiungibile da Occidente attraverso la rotta di circumnavigazione marittima della Terra. Si documentò quindi su testi geografici come l'Historia rerum ubique gestarum di Papa Pio II del 1477, quindi l'opera Imago mundi di Pierre d'Ailly (1480) e infine il più noto Il Milione di Marco Polo.

Una notevole influenza sulla sua decisione in favore del progetto del lungo viaggio marittimo di "buscar el Oriente por el Occidente" (così fu poi riassunto dalla storia), fu una lettera che nel 1474 Paolo Toscanelli indirizzò al canonico di Lisbona Martins De Reriz, in risposta al quesito postogli da Alfonso V del Portogallo attraverso lo stesso canonico[22]. Nella missiva, il fisico fiorentino riteneva anch'egli percorribile una rotta marittima verso ovest per raggiungere le cosiddette "Indie", tuttavia in errore sui calcoli matematici delle distanze geografiche calcolate.

Nel 1479 inoltre, il navigatore conobbe e sposò a Lisbona Filipa Moniz Perestrello[23], figlia di Bartolomeo Perestrello il Vecchio (navigatore portoghese di origini piacentine e, dal 1419, governatore di Porto Santo[24]). La coppia, a partire dal 1480 circa, si trasferì nell'arcipelago portoghese di Madera, al largo del Marocco, prima sull'isola di Porto Santo, dove nacque il loro unico figlio, Diego, poi sulla stessa Madera[25]. In quell'anno, Colombo si dedicò anche al commercio in proprio[26], tuttavia senza successo. Il fallimento, insieme alla convinzione sempre più forte sul viaggio atlantico e il decisivo incontro con un naufrago il quale, in punto di morte, tracciò addirittura una mappa delle lontane terre a occidente[27], lo fece ritornare a Lisbona, dove continuò a studiare le mappe.

Realizzazione del progetto

Statua dedicata a Colombo a Madrid

Colombo incontrò il re Giovanni II di Portogallo nel 1483[28], al quale chiese la somma necessaria per il suo progetto, ma dopo aver consultato i suoi esperti il Re rifiutò la proposta.[29] Nel frattempo, la moglie Filipa morì (alcune fonti incerte dicono che fu invece abbandonata) nel 1485, per cause ignote, durante un viaggio a Roma[30]. Ormai da solo e rifiutato dal Re Giovanni II, nulla legava più Colombo al Portogallo[31] che lasciò, in segreto, con suo figlio Diego, trasferendosi in Spagna (Regno di Castiglia), precisamente a Siviglia, dove viveva sua cognata, la ricca sorella della moglie, Briolanja Violante Moniz Perestrello, altresì proprietaria della villa di Tomares e consorte dell'uomo d'affari fiorentino Francesco Bardi.

Cristoforo infatti, era alla ricerca di qualcuno che potesse finanziare il viaggio. Oltre Bardi, il navigatore contattò anche il duca di Medina Sidonia, ma questi non ottenne l'appoggio della Corona, e si trovò costretto a rifiutare.[32] Nel marzo del 1486 Colombo si fece anche ospitare dai frati francescani di Rábida, un convento non lontano dal piccolo porto di Palos de la Frontera (Cadice), dove il navigatore già si stava informando su navi ed equipaggi. I porti principali infatti, erano occupati dall'Inquisizione per la massiccia espulsione dei non cattolici (musulmani e successivamente ebrei non convertiti) dalla Spagna. Nello stesso anno, Colombo tentò di convincere anche Don Luis de la Cerda, duca di Medinaceli ad intercedere per i finanziamenti presso la regina Isabella di Castiglia, la quale, alla fine, decise di incontrare il navigatore[33].

Colombo allora, si stabilì a Cordova[34] già dal 20 gennaio 1486, al cospetto di Alfonso de Quintanilla, tesoriere dei regnanti,[35] come preludio all'incontro con la Regina, tuttavia temporaneamente assente in città. Qui, l'esploratore conobbe i fratelli Luciano e Leonardo Barroia, e l'amico Diego de Arana[36], che gli presentò la cugina Beatriz Enríquez de Arana, dedita al commercio vinicolo e orfana da tempo. Colombo s'innamorò di lei, ma senza sposarla; i due ebbero un figlio nel 1488, Fernando Colombo (Hernando Còlon), secondo ed ultimogenito dell'esploratore[37]. Nello stesso periodo, il navigatore ebbe anche una relazione con Beatriz de Bobadilla, signora di La Gomera, nipote della marchesa di Moya[38], che pare ebbe un ruolo decisivo nel convincere i regnanti ad accettare di finanziare il viaggio.

Nel maggio del 1487 i regnanti Ferdinando e Isabella incontrarono finalmente Colombo[39], che presentò il suo progetto. Una commissione di corte, presieduta da padre Hernando de Talavera (confessore dei re cattolici) e composta da uomini dotti (letrados) come Rodrigo Maldonado de Talavera, si riunì per decidere le effettive possibilità di riuscita, ma il progetto fu respinto alla fine del 1490[40] (nel frattempo, la corte si era trasferita a Salamanca). Colombo, nei mesi successivi, insistette ancora, con l'aiuto del fratello Bartolomeo, rivolgendosi anche ai sovrani d'Inghilterra e di Francia. All'inizio del 1492, col protrarsi dell'attesa, il navigatore giunse oramai ai limiti delle risorse economiche, al punto da non essere quasi più in grado di provvedere alla sua famiglia[41], costretto a vendere libri e disegnare mappe[42].

I tre velieri in una stampa di Gustav Adolf Closs del 1892

Padre Juan Pérez, confessore personale della Regina, tramite Sebastiano Rodriguez[43] fece recapitare una missiva alla stessa regina, la quale due settimane dopo fece convocare il padre. Il tesoriere Luis de Santángel, Ferdinando Pinello e altri intanto assicurarono la copertura finanziaria eventualmente richiesta[44]

Si riunirono nuovamente gli esperti, mentre Colombo ricevette tramite lettera la comunicazione di una nuova udienza. Decisivo fu anche il contributo del vescovo Geraldini originario della città di Amelia, anche lui confessore della regina Isabella e amico personale di Colombo e del fratello Antonio; per sua insistenza, la Regina si convinse a consentire il viaggio. Colombo avrebbe poi intitolato una delle isole del Nuovo Mondo a Graziosa, madre del Geraldini, e il prelato divenne anche il primo vescovo residenziale delle Americhe.

Colombo si recò a Siviglia, ma i reali si erano da poco trasferiti a Santa Fe, vicino a Granada. Colombo li raggiunse e nell'incontro, i reali furono propensi al finanziamento, ma lui dettò le sue condizioni, ovvero il titolo di ammiraglio e la carica di viceré e "governatore delle terre scoperte" (titolo che doveva altresì essere ereditario), la possibilità di conferire ogni tipo di nomina nei territori conquistati[45] e, inoltre, una rendita pari al 10% di tutti i traffici marittimi futuri. Le richieste furono considerate eccessive e non si fece alcun accordo, per cui Colombo ripartì, ma venne richiamato[46], e le richieste vennero accettate in caso di successo.

Durante le trattative, che durarono fino ad aprile, Isabella si fece rappresentare da Juan de Coloma, mentre le bozze furono redatte dallo stesso padre Perez. Il contratto (Capitolaciones de Santa Fe), fu firmato il 17 aprile 1492, con cinque paragrafi integrali.[47]

Le Caravelle

La somma necessaria per l'armamento, pari a 2 000 000 di maravedí, sarebbe stata versata metà dalla corte e metà da Colombo, finanziato a sua volta da un istituto di credito genovese, il Banco di San Giorgio e dal mercante fiorentino Giannotto Berardi. Si trattava, in realtà, di una somma modesta anche per quei tempi: si calcola, infatti, che quella che si sarebbe rivelata come una delle più importanti spedizioni della storia umana, fu finanziata con una spesa complessiva variabile fra gli attuali[di che anno?] 20 000 e 60 000 €.[48] Dopo la firma, Colombo lasciò la città il 12 maggio, affrettandosi a giungere a Palos, dove aveva già stretto accordi con gli armatori e navigatori delle due navi più piccole, i fratelli Pinzón (Martin, Francisco e Vicente)[49]. Furono così allestiti tre velieri (di norma definiti caravelle[50]), di cui due, la Santa Maria e la Pinta erano dotati di alberi a vele quadre, mentre l'ultimo, la Niña, era dotato di vela latina. Tecnicamente nessuna poteva definirsi nave dal punto di vista velico, perché mancanti di tre alberi a vele quadre.

A giugno, la Pinta e la Niña furono già pronte[51], sfruttando così il tempo residuo per il reclutamento dell'equipaggio[52]. Nel reclutare i novanta marinai[53], Colombo venne validamente aiutato da Martín Pinzón, che godeva di ottima fama nella città.[54] A Martín Pinzón spettò il ruolo di comandante in seconda di Colombo e l'esecuzione pratica del viaggio, mentre a Colombo spettò la guida come artefice dell'idea[55]. La Pinta, che stazzava 140 tonnellate e la piccola Niña[56] che ne stazzava solamente 100, vennero comandate rispettivamente dai due armatori Martín e Vicente Pinzón[57].

La Santa María, di proprietà del cantabrico Juan de la Cosa e a cui venne confiscata per questa missione, venne allestita per ultima. Venne inizialmente chiamata Gallega in quanto costruita in Galizia e fu lo stesso Colombo a darle il nome di Santa Maria, anche se quest'informazione non è proprio certa; nei suoi diari la chiama Capitana, Ammiraglia, Nao o semplicemente Gallega[58]. Fu l'unico veliero della spedizione che si fregiò del titolo di vera e propria "nave" (in realtà si trattava di una caracca), poiché stazzava 150 tonnellate e, in qualità di nave ammiraglia, era capitanata dallo stesso Colombo. De la Cosa venne anche nominato pilota di flotta per il viaggio.

Scoperta dell'America e viaggi successivi

Lo stesso argomento in dettaglio: Viaggi di Cristoforo Colombo.

Primo viaggio: 1492-1493

Lo stesso argomento in dettaglio: Primo viaggio di Cristoforo Colombo.
Primo viaggio nel mar dei Caraibi
I quattro viaggi di Colombo

La partenza della prima spedizione avvenne il 3 agosto 1492 da Palos de la Frontera[59], con rotta verso le Isole Canarie per sfruttare i venti. Il 6 agosto[60] si ruppe il timone della Pinta e si credette a un'opera di sabotaggio,[61] quindi furono costretti a uno scalo di circa un mese a La Gomera per le necessarie riparazioni.[41] La Pinta giunse con due settimane di ritardo a causa dell'avaria, tanto che Colombo pensò di sostituirla con un'altra caravella. Si approfittò della sosta per modificare anche la velatura della Niña, trasformandola da latina a quadra per meglio adeguarla alla navigazione oceanica. Va anche detto che a La Gomera era presente la giovane vedova del governatore, Beatriz de Bobadilla y Ulloa, che a quanto pare aveva già avuto uno scambio di cortesie col navigatore.[62]

Le tre navi ripresero il largo il 6 settembre, spinte dagli alisei, dei quali Colombo conosceva l'esistenza. Questi venti spirano sempre da est verso ovest, formando stabilmente una striscia di nuvole galleggiante nell'aria, tanto che l'ammiraglio, nel giornale di bordo, scrisse: «Si naviga come tra le sponde di un fiume». Un'altra, tra le suggestioni del primo viaggio transoceanico, fu la posizione delle navi costantemente rivolte verso il tramonto, oltre che la sensazione di procedere per ampi spazi mai prima toccati.[63] Le caravelle navigarono per un mese senza che i marinai riuscissero a scorgere alcuna terra, cominciando così a provocare un certo nervosismo nell'equipaggio. Il 16 settembre, le caravelle cominciarono ad entrare nel Mar dei Sargassi, e Colombo approfittò dello spettacolo delle alghe galleggianti (un fenomeno tipico di questo mare, che prende il nome dell'alga sargassa), per sostenere che tali vegetali erano sicuramente indizi di terra vicina (cosa in realtà non vera), tranquillizzando temporaneamente i suoi uomini[41] i quali, in realtà, erano ignari di trovarsi ancora a circa mille miglia nautiche dalle coste del nuovo continente.

Dal 17 settembre, si osservò con stupore il fenomeno assolutamente sconosciuto della declinazione magnetica: la bussola infatti, indicava il polo magnetico, distaccandosi sempre di più dal nord geografico, posto leggermente più a est, col rischio quindi di allontanare le navi dalla loro rotta[64]. Questi strani fenomeni fisici, ebbero l'effetto di spaventare i marinai e aumentare inevitabilmente la tensione. Il 6 ottobre Colombo registrò di aver percorso 3652 miglia, già cento in più di quante ne aveva previste. I suoi calcoli geografici delle distanze fino alle Indie infatti, risultarono errati, avendo, di fatto, stimato una rotta almeno nove volte più piccola di quella reale.
Lo stesso giorno vi fu una riunione generale dei comandanti a bordo della Santa Maria, durante la quale Martín Pinzón suggerì di virare da ovest verso sud-ovest[65], cosa che il giorno successivo il comandante fece, avendo visto alcuni uccelli dirigersi verso quella direzione.

Tuttavia, il 10 ottobre ci fu un principio di ammutinamento;[66] Colombo, più che mai fermo nella propria idea e forte degli studi che aveva compiuto nel corso del viaggio, riuscì forse a ottenere un accordo[67]: se entro tre o quattro giorni le vedette non avessero scorto alcuna terra, le caravelle sarebbero tornate indietro[41], oppure si sarebbe deciso diversamente[68]. Giovedì 11 ottobre si ebbero alcuni segnali positivi: oltre l'aumentare degli uccelli in volo, furono avvistati diversi oggetti in mare, fra cui un giunco, un bastone e un fiore fresco[69] che un marinaio pescò in mare[41]. Durante la notte inoltre, Colombo si disse convinto di avere intravisto in lontananza una luce, «como una candelilla que se levava y se adelantaba» ("come una piccola candela che si levava e si agitava").

Colombo sbarcato nel Nuovo Mondo. Dióscoro Puebla, 1862

Fu solo alle due di notte di venerdì 12 ottobre 1492 che Rodrigo de Triana, a bordo della Pinta, distinse finalmente la costa[70] (tuttavia, il premio in denaro promesso al primo che avesse avvistato la terra fu aggiudicato a Colombo)[71]. La mattina, le caravelle riuscirono a trovare un varco nella barriera corallina del Mare Caraibico e gli equipaggi riuscirono a sbarcare su un'isola chiamata, nella lingua locale, Guanahani, e che Colombo battezzò con il nome di Isola di San Salvador; l'identità moderna di questa isola corrisponde, presumibilmente, con quella di un'isola delle Bahamas. Gli spagnoli furono accolti con grande cortesia e condiscendenza dagli indigeni Lucayos, una tribù di nativi del gruppo etnico Taino[72]. Colombo stesso, nella sua relazione, sottolinea più volte la gentilezza e lo spirito pacifico dei suoi ospiti:

«Gli abitanti di essa [...] mancano di armi, che sono a loro quasi ignote, né a queste son adatti, non per la deformità del corpo, essendo anzi molto ben formati, ma perché timidi e paurosi [...] Del resto, quando si vedono sicuri, deposto ogni timore, sono molto semplici e di buona fede, e liberalissimi di tutto quel che posseggono: a chi ne lo richieggia nessuno nega ciò che ha, ché anzi essi stessi ci invitano a chiedere»

(Cristoforo Colombo, prima relazione sul viaggio nel Nuovo Mondo, 14 marzo 1493[73])

La sera del 27 ottobre[74], le caravelle arrivarono fino alla fonda della baia di Bariay[75] a Cuba, nell'attuale provincia di Holguín. Nel diario di bordo di domenica 28 ottobre troviamo scritto: "Es la isla mas hermosa que ojos humanos hayan visto" ("È l'isola più bella che occhio umano abbia mai visto"). Tuttavia, data la mancanza di oro e la condizione primitiva degli indigeni, l'ammiraglio pensò di essere arrivato soltanto in un remoto avamposto della grande civiltà asiatica descritta da Marco Polo[76].

La diserzione di Pinzón e la scoperta di Hispaniola

Già nei primi giorni di novembre del 1492, il Capitano della Pinta Martín Alonso Pinzón riuscì a capire dagli indigeni la probabile esistenza di grandi ricchezze nell'isola di Babeque (oggi Haiti-Repubblica Dominicana)[77] e, dopo alcuni tentativi, decise di proseguire le ricerche senza autorizzazione[78]. Fu così che per circa due mesi la flottiglia si ridusse a due sole caravelle con le quali venne esplorata la parte settentrionale dell'isola Haiti, battezzata "Hispaniola". Giunsero infine nella baia che Colombo chiamò "Bahia de los Mosquitos" (altro nome che sopravvisse nei secoli) e si parlò di un'isola a forma di tartaruga che il navigatore chiamò "Tortuga".[79]

Sempre convinto di trovarsi in Asia, Colombo confuse la parola indigena Cibao (una regione al centro dell'isola) con il ricchissimo Cipango, ovvero il Giappone[80], alla ricerca del quale si mise subito in viaggio superando Capo d'Haiti. Verso la mezzanotte del 25 dicembre, a poca distanza dalla costa, la Santa Maria andò in secco di prua arenandosi sopra un banco corallino. L'Ammiraglio, svegliatosi, ordinò di tonneggiare gettando l'ancora verso poppa per poi trainarla da un argano allo scopo di far retrocedere la nave. Venne quindi gettata in mare una lancia su cui salì anche Juan de la Cosa che, inaspettatamente, decise di dirigersi verso la Niña.[81] La Santa Maria rimase in condizioni precarie e venne abbandonata; a nulla servirono gli ultimi sforzi dei marinai.[82]

L'Ammiraglio, rimasto con una sola caravella, dovette abbandonare parte della ciurma (39 persone in tutto)[83] con la promessa che sarebbe tornato a riprenderli durante il secondo viaggio transoceanico. Fece quindi costruire un forte – La Navidad[84] – a poca distanza dal luogo dell'incidente. Successivamente gli indigeni dissero di aver avvistato "un'altra casa sull'acqua" (la Pinta) ma a nulla servì il messaggio che Colombo cercò di inviargli.[85] Il 4 gennaio si tentò ancora di entrare in contatto mentre il 5 la flotta si riunì nelle vicinanze di Monte Christi. Seguirono l'incontro e le giustificazioni di Martín Alonso Pinzón.[86]

Il capitano della Pinta affermò di essersi recato senza successo a Babeque e di aver fatto scambi proficui con Caonabò, un potente cacicco indio.[87][88] Colombo non gli credette ma lo perdonò in quanto gli era impossibile intraprendere il viaggio di ritorno con una sola imbarcazione.[89] Prima del rientro decisero di trarre in secco le due navi a Capo Samanà per un lavoro di restauro. Il 13 gennaio furono attaccati da una tribù ostile, che Colombo credette fossero i temibili Canibi.[90] Negli scontri si ebbero soltanto alcuni feriti ma Colombo decise comunque di partire prima possibile all'alba del 16 gennaio 1493.[91]

Consapevole che per il viaggio di ritorno la flotta avrebbe dovuto muovere a settentrione per uscire dal regime degli alisei, Colombo risalì fino al 35º parallelo, quasi in linea col parallelo di Capo San Vincenzo in Portogallo. Quindi, il 23 gennaio, puntò la prua a levante.[92] Il navigatore non poteva sapere che in inverno, a tali latitudini, l'oceano Atlantico è sconvolto da violentissime tempeste come quella in cui s'imbatté il 13 febbraio.[93] L'uragano durò circa due giorni, ridusse allo stremo la resistenza delle piccole caravelle e le separò senza alcuna possibilità di manovra. Colombo, temendo il peggio, gettò in acqua un barile che conteneva i documenti e i resoconti dell'impresa (il barile non venne mai ritrovato).[94] Placatasi finalmente la burrasca, Colombo approdò fortunosamente alle isole Azzorre, sull'isola di Santa Maria. Da qui, le malconce Niña e Pinta ripartirono il 24 febbraio arrivando otto giorni dopo a Restelo, nei pressi di Lisbona. Rui de Pina, umanista portoghese alla corte di Giovanni II, scrisse del suo arrivo in Portogallo:

«Il 6 marzo 1493 è arrivato dalle Antille di Castiglia Cristoforo Colombo, italiano...»

Nonostante l'inimicizia dei portoghesi, Colombo venne cortesemente ricevuto da re Giovanni II[95] a Vale do Paraíso, vicino Azambuja, mettendo a sua disposizione il porto di Lisbona per il restauro della caravella. Martín Alonso Pinzón, intanto, era riuscito a giungere a Baiona nell'attuale Galizia ai primi di marzo (rientrando quindi nella Penisola Iberica prima di Colombo)[96]; fece poi vela per Palos arrivandovi poche ore dopo la Niña, già sofferente di una misteriosa malattia che in breve tempo lo condusse alla morte (probabilmente la sifilide).[97]

Colombo aveva portato con sé un po' di oro, tabacco e alcuni pappagalli da offrire ai sovrani quali segni tangibili delle potenzialità delle "isole dell'India oltre il Gange". Condusse anche dieci indiani Taino. Furono giorni di festa nelle città di Siviglia, Cordova e Barcellona, dove l'Ammiraglio giunse il 20 aprile accolto dai sovrani con onori trionfali. Il ricevimento continuò nella cappella di Sant'Anna per celebrare il Te Deum[98] consumando poi un pranzo con il rito della "salva", solitamente riservata alla stirpe di sangue reale.[99] I sovrani lo sollecitarono infine a intraprendere una seconda spedizione.

Secondo viaggio, 1493-1496: le Antille

Lo stesso argomento in dettaglio: Secondo viaggio di Cristoforo Colombo.
Secondo viaggio

L'ammiraglio Colombo salpò per il suo secondo viaggio da Cadice il 25 settembre 1493 con 17 navi, fra cui la Niña ora denominata Santa Clara,[100] e un equipaggio di circa 1200 uomini, tra i quali vi erano il figlio Diego, il fratello Giacomo, il padre di Las Casas e il monaco Bernardo Buil. I documenti relativi al viaggio provengono dalle cronache di Diego Alvarez Chanca[101] e di Michele da Cuneo, poiché il diario di bordo andò perduto.[102] Colombo salì al comando della nuova nave ammiraglia: Santa Maria, denominata in seguito Mariagalante.[103] Il 3 novembre la flotta raggiunse Dominica e veleggiò tra le piccole e le grandi Antille. Il 19 arrivarono a Porto Rico e il 22 dello stesso mese Colombo tornò a Hispaniola, dove scoprì che gli uomini dell'equipaggio che aveva lasciato erano stati uccisi e la fortezza rasa al suolo.[104]

Fondò un nuovo avamposto, "La Isabela", sorta sulle rive del rio Bahonito nei primi giorni dell'anno 1494. Le condizioni del luogo e il cibo indigesto fecero ammalare centinaia di uomini entro la fine del mese. L'ammiraglio preoccupato fece partire Antonio de Torres con dodici navi verso l'Europa,[105] cariche di pochissimo oro.[106] Colombo trascorse alcuni mesi nell'esplorazione dell'entroterra alla ricerca di oro e creò un nuovo forte, San Tomás.[107] Il 24 aprile 1494 lasciò l'isola e il 30 aprile giunse a Cuba. Il 12 giugno 1494 si trovò di fronte all'isola di San Giovanni Evangelista a 100 miglia dalla fine dell'isola. Colombo fece firmare a ognuno dei membri delle caravelle un giuramento con il quale si affermava che si era giunti nelle Indie, nel continente.[108]

Colombo cadde malato quando tornò a La Isabela il 29 settembre; intanto era giunto con tre caravelle suo fratello Bartolomeo, giusto in tempo per essere nominato dal fratello, incapace al momento, adelantado (titolo castigliano di nomina regia che nello specifico coniugava i poteri di governatore con quelli di giudice, ma per una regione ancora da conquistare, quindi i poteri venivano conferiti in anticipo, en adelante in spagnolo) della colonia, ovvero delegò ogni potere a lui.[109] Gli spagnoli non furono contenti di tale gesto: lo stesso Margarit con padre Buil al seguito decise di ammutinarsi e prendere le tre caravelle di Bartolomeo per tornarsene in Europa;[110] molti li seguirono. Cominciarono delle battaglie contro gli indigeni, che videro al termine la vittoria spagnola.

Giunse Juan Aguardo inviato dai reali ispanici nell'ottobre del 1495,[111] maggiordomo di corte, il cui compito era quello di osservare, informarsi registrando le testimonianze dei coloni e riferire. Colombo decise quindi di ritornare in Europa ma prima della partenza un violento uragano si abbatté su La Isabela, distruggendo tutte le caravelle tranne la Niña,[112] insufficiente per tornare con tutti gli uomini rimasti. Fece quindi costruire un'altra caravella, pronta nel marzo del 1496, e a quella imbarcazione venne dato il nome di India. Duecento uomini salirono su quelle navi a cui si aggiunsero trenta schiavi fra cui Caonabò, catturato in precedenza,[113] che morì durante il viaggio. Partirono il 10 marzo 1496 e l'11 giugno giunsero a Cadice.

Terzo viaggio, 1498-1500: Venezuela e ritorno a Hispaniola

Lo stesso argomento in dettaglio: Terzo viaggio di Cristoforo Colombo.
Terzo viaggio

Dopo due anni trascorsi in Castiglia, incontrò a Burgos i re ispanici e li convinse della necessità di una nuova spedizione. I sovrani stanziarono la somma necessaria per il viaggio e Colombo riuscì così ad armare sei navi, con un equipaggio di circa 300 marinai.[114] La flotta, partita il 30 maggio 1498, diresse verso La Gomera dove le sei navi si divisero: tre proseguirono con Colombo, mentre le restanti proseguirono per le rotte ormai consolidate,[115] verso Dominica. L'ammiraglio puntò con la flotta ridotta verso le isole di Capo Verde, da dove raggiunse poi Trinidad il 31 luglio. Nell'agosto di quello stesso 1498 Colombo esplorò il Golfo di Paria e le coste orientali dell'attuale Venezuela, addentrandosi nel delta dell'Orinoco. Convinto di essere di fronte a piccole isole piuttosto che a un continente, decise di non sbarcare, inviando solamente dei marinai che incontrarono terre ricche di perle.

La flottiglia giunse a Hispaniola l'11 agosto 1498. Colombo cercò la nuova città fondata dal fratello Bartolomeo, Santo Domingo, dove arrivò alla fine del mese; lì fu raggiunto anche dal figlio Diego. Dopo che nella città scoppiò, nel 1499, una rivolta capeggiata da Francisco Roldán (l'alcalde di Isabella)[116] i sovrani ispanici, avvertiti dai reduci dei disordini sull'isola e leggendo delle strane pretese avanzate da Colombo nella sua missiva, nell'estate del 1500 inviarono il militare inquisitore Francisco de Bobadilla, per far luce sull'accaduto[117]. Al suo arrivo, furono placate le rivolte di Roldàn e del suo secondo, Adrian de Muxica, quest'ultimo condannato a morte[118]. Bobadilla accusò quindi i Colombo di cattiva gestione delle colonie e dei relativi disordini causati, arrivando addirittura ad arrestare prima Diego, poi Bartolomeo, quindi lo stesso Cristoforo[119]. Ad ottobre, i tre Colombo ritornarono quindi in Spagna in catene, a bordo della caravella Gorda, giungendo già a fine mese presso Cadice; qui, Cristoforo, ancora incatenato come sua richiesta, consegnò a un suo uomo di fiducia una missiva da recapitare a Donna Juana, sorella di Antonio de Torres, confidente della regina. Isabella lo fece liberare, tuttavia dovette rinunciare al titolo di viceré delle nuove terre[120].

Quarto viaggio, 1502-1504

Lo stesso argomento in dettaglio: Quarto viaggio di Cristoforo Colombo.
Quarto viaggio

Dopo l'incontro con i reali avvenuto nel dicembre del 1500 a Granada, il 3 settembre 1501 i reali tolsero la carica di viceré a Colombo e proclamarono governatore e giudice supremo delle isole e della terraferma delle Indie Nicolás de Ovando.[121] L'ammiraglio organizzò un altro viaggio e su insistenti richieste il 14 marzo 1502 i reali accettarono la proposta, ma in cambio non avrebbe portato altri schiavi e non avrebbe dovuto fare scalo a Hispaniola, almeno all'andata; intanto Ovando partì con 32 navi e 2 500 uomini diretti verso Hispaniola.[122] Colombo partì accompagnato dal fratello Bartolomeo e dal figlio tredicenne Fernando.

Le quattro navi concesse fra cui la Santiago,[123] la Gallega, pilotata da Pedro de Terreros, e la Vizcaina, comandata da Bartolomeo Fieschi, salparono da Cadice il 9 maggio 1502. Il pilota era Juan Sánchez Romero, posto sotto gli ordini del comandante Diego Tristan:[124] Colombo era invecchiato tanto da non poter prenderne il comando. Dopo lo scalo a Gran Canaria,[125] si riprese la traversata che finì, 20 giorni dopo, a Martinica. Dopo una sosta di qualche giorno si rivolse verso Hispaniola, città che gli era stato vietato raggiungere. Colombo aveva previsto il sopraggiungere di un uragano, così chiese rifugio per le imbarcazioni a Ovando che rifiutò. L'ammiraglio trovò un altro luogo dove ripararsi ma venti navi partite per il ritorno in Spagna su cui vi erano imbarcati de Torres, Francisco de Bobadilla e Francisco Roldán, vennero distrutte e non ci furono sopravvissuti al disastro,[126] mentre le navi di Colombo si salvarono. Ripartì verso l'America centrale continentale con l'intenzione di trovare un passaggio per le Indie.[127]

Tra il luglio e l'ottobre di quell'anno Colombo costeggiò l'Honduras, il Nicaragua e la Costa Rica. Fra piogge continue, in 28 giorni viaggiarono per 170 miglia.[128] Il 5 ottobre giunse in quello che gli indigeni chiamavano Ciguara, luogo che secoli dopo divenne il canale di Panamá, raggiungendo la città di Panama, il 16 ottobre. Saputo di Veragua, una regione ricca d'oro, pensò allo sfruttamento della zona, talmente impervia però da abbandonare il progetto. Gli indigeni locali ostili, armati con mazze in durissimo legno di palma, in uno scontro uccisero Diego Tristan e alcuni marinai che erano andati con lui in perlustrazione e ne ferirono molti altri, fra cui lo stesso Bartolomeo. Colombo, malato da tempo, decise di abbandonare tutto, Gallega compresa, grazie all'aiuto di Diego Mendez, promosso poi al posto del defunto Tristan; le perdite furono limitate.[129]

Il 16 aprile 1503 Colombo lasciò quei luoghi, ripartendo per Hispaniola, scoprì le Isole Cayman e le battezzò Las Tortugas per le numerose tartarughe marine che vi erano presenti, ma durante la navigazione gli scafi risultavano infestati da dei parassiti, le teredini, comuni nelle acque caraibiche che indebolirono la struttura delle tre navi rimaste. La prima a cedere fu la Vizcaina che venne abbandonata in un'insenatura. Il 25 giugno giunsero nella baia di Santa Gloria. Gli equipaggi furono costretti a sbarcare sulla costa settentrionale della Giamaica. Le navi infatti avevano imbarcato troppa acqua e la spedizione era giunta in Giamaica svuotandole con le pompe e i secchi di bordo. Poco dopo l'arrivo trascinarono le navi in riva e le puntellarono per creare un riparo e una difesa contro gli indigeni. Si trovavano vicini a un villaggio, Maima.[130]

Colombo e l'eclissi lunare

Colombo vietò a chiunque di scendere dalle navi e inviò Diego Mendez con tre uomini al seguito ottenendo permessi per la caccia e la pesca. Si pensò al ritorno e l'ammiraglio ebbe l'idea di creare una canoa permettendo ad un uomo di giungere a Hispaniola: l'incarico fu affidato a Mendez.[131] Alla fine le canoe furono due e l'esempio di Mendez fu seguito da Bartolomeo Fieschi;[132] con loro salirono diversi indigeni, di cui uno morì per la sete venendo poi gettato a mare. Dopo tre giorni di navigazione giunsero a Navassa e a settembre furono a Santo Domingo. Durante le lunghe trattative Francisco Porras e Diego Porras,[133] seguiti da 48 uomini si ribellarono a Colombo, vollero tentare l'attraversata in canoa come i due tempo addietro ma non ebbero fortuna e tornarono arrendendosi. Gli indigeni stavano per ribellarsi ma Colombo riuscì poco dopo a prevedere un'eclissi lunare del 29 febbraio e mandò quindi a chiamare gli indigeni sostenendo che il suo Dio era in collera con loro e avrebbe oscurato il cielo. La sera la luna divenne rossa e il giorno dopo gli indigeni spaventati ripresero a fornire cibo ai superstiti.[134] Nel mese di giugno 1504 giunse Diego de Salcedo con una nave da lui pagata con al seguito una piccola imbarcazione.[135] I soccorritori erano giunti. Il 28 giugno ripartirono per Hispaniola, il 12 settembre alla volta della Spagna, pagando di tasca propria il viaggio di rientro. Arrivò in Spagna il 7 novembre.[126]

Gli ultimi anni

A seguito del suo primo viaggio, Colombo fu designato Viceré e Governatore delle Indie, titolo che gli rese possibile l'amministrazione delle colonie nell'isola di Hispaniola con capitale in Santo Domingo. Già al termine del suo terzo viaggio, alla Corte spagnola erano giunte accuse di tirannia e di incompetenza nei riguardi di Colombo, cui la regina Isabella e il re Ferdinando risposero rimuovendo Colombo dalla sua carica, destituendolo dei propri poteri e rimpiazzandolo con Francisco de Bobadilla, un membro dell'Ordine di Calatrava. Bobadilla, che ricoprì la carica di governatore dal 1500 fino al 1502, anno in cui morì a causa di una tempesta, venne incaricato di investigare la veridicità delle accuse, che ponevano al centro il problematico comportamento brutale di Colombo.

Arrivato a Santo Domingo nel mentre in cui Colombo era assente perché impegnato in certe esplorazioni del suo terzo viaggio, Bobadilla venne immediatamente messo al corrente delle lamentele contro i tre fratelli Colombo: Cristoforo, Bartolomeo e Diego. Bobadilla registrò come regolarmente Colombo fece ricorso alla tortura e alla mutilazione come metodi per governare Hispaniola. Il resoconto di Bobadilla risultò quindi un vero e proprio registro di 48 pagine sui problemi che il comportamento dei Colombo causò nell'isola. Il resoconto è stato rinvenuto nel 2006 nell'Archivio Nazionale di Spagna, presso la città di Simancas. Esso contiene le testimonianze di 23 persone, tra amici e oppositori di Colombo, in particolare incentrate sul trattamento dei coloni durante i sette anni di regno.[136][137]

Stando al resoconto di Bobadilla, in un'occasione Colombo punì un uomo colpevole di furto facendogli tagliare orecchie e naso e quindi vendendolo come schiavo. Altri testimoni, sempre registrati nell'istruttoria di Bobadilla, dichiarano che Colombo si congratulò con il fratello Bartolomeo per aver "difeso la famiglia" allorché quest'ultimo costrinse una donna a sfilare nuda per le strade prima di reciderle la lingua, come punizione per aver sostenuto che Colombo fosse di umili origini.[136][137] Il documento di Bobadilla descrive inoltre come Colombo sterminò una buona quantità di nativi dell'isola: prima diede luogo a una severa repressione in cui molti nativi rimasero uccisi, in seguito fece sfilare per le strade i loro corpi smembrati con l'intento di scoraggiare eventuali ribellioni.[138]

Nel suo studio sul resoconto di Bobadilla, la storica Consuelo Varela sottolinea gli aspetti severi del governo di Colombo, non dissimili da quelli di un tiranno, che portarono anche alcuni sostenitori ed amici a riconoscere le atrocità da lui compiute.[136]

A seguito delle accuse mosse contro di loro, Colombo e i fratelli furono arrestati e imprigionati durante il loro ritorno in Spagna dal terzo viaggio; vennero poi rilasciati per ordine di re Ferdinando. Non molto dopo, il re e la regina convocarono i fratelli al palazzo di Alhambra, a Granada. Lì, i reali prestarono udienza alle difese da loro avanzate, ripristinarono il loro stato di libertà e le loro ricchezze e, dopo una determinata operazione di persuasione, accordarono a Colombo il quarto viaggio. Ciò nonostante, vietarono a Colombo qualsiasi potere di governo e di imposizione sulla popolazione. Il titolo di governatore delle Indie Occidentali venne infatti accordato a Nicolás de Ovando y Cáceres.[139]

Ancor prima della scoperta del resoconto di Bobadilla, avvenuta nel 2006, lo storico statunitense David E. Stannard, nel suo saggio Olocausto americano chiarì alcuni punti circa la condotta di Colombo, sottolineando i fattori culturali e quelli personali nonché psicologici che lo pongono al medesimo livello dei conquistadores spagnoli che lo seguirono, giungendo a stabilire sistemi di sfruttamento dei nativi e delle risorse naturali delle terre scoperte. Scrisse Stannard:

«Sotto molti punti di vista, Colombo non fu altro che un'incarnazione attiva e teatrale della mente e dell'anima europea, e in particolare mediterranea, del suo tempo: un fanatico religioso ossessionato dalla conversione, dalla conquista o dallo sterminio di tutti gli infedeli; un crociato degli ultimi giorni in cerca di fama personale e ricchezza, che si aspettava che il mondo immenso e misterioso che aveva scoperto fosse pieno di razze mostruose che abitavano le foreste selvagge e di gente felice che viveva nell'Eden. Provava anche un'intolleranza e un disprezzo tale per tutto ciò che non appariva e non si comportava come lui, per chi non credeva in ciò che lui credeva, che pensò che fosse accettabile imprigionare, rendere schiavi e uccidere le persone che non erano come lui. Fu la personificazione secolare di ciò che più di mille anni di cultura cristiana avevano creato. A questo punto, il fatto che abbia dato avvio a una campagna di orribili violenze contro i nativi dell'isola di Hispaniola non dovrebbe più sorprendere nessuno. Piuttosto sarebbe sorprendente se "non" avesse inaugurato la carneficina.»

(David E. Stannard, Olocausto americano[140])

Chi si oppone alla sovrapposizione netta tra l'operato di Colombo e quello dei successivi conquistatori spagnoli delle Americhe sottolinea come il vero e proprio genocidio dei popoli amerindi non fu dettato esclusivamente dalle brutalità e dallo sfruttamento ad opera dei colonizzatori ma il contesto di un contatto che portò con sé virus e altre malattie che decimarono la popolazione delle Americhe.[141]

La morte a Valladolid

La tomba di Colombo nella cattedrale di Siviglia[142]

Alla fine del 1504 decise di non lasciare più il Regno di Castiglia, anche se in un ambiente a lui ostile. Risiedeva a Siviglia mentre i reali a Segovia. Inviava lettere al figlio, Diego, divenuto cortigiano di corte chiedendo incontri con i reali che non ebbero mai luogo. La regina Isabella, sua protettrice, malata da tempo, nel frattempo era morta, mentre il Re e la corte non compresero l'importanza delle sue scoperte, né accettarono il suo "Memorial des Agravios", un lungo memoriale sui torti ricevuti.

Il figlio riuscì a far ottenere al padre un incontro con re Ferdinando,[143] e per le sue rivendicazioni fu decisa la creazione di un ruolo apposito, di un arbitro, ricadendo su padre Deza tale compito che svolse con dedizione,[144] ma i risultati non furono dei migliori per Colombo. Gli offrirono Carrión de los Condes in cambio di tutte le sue rivendicazioni ma egli rifiutò, giungendo in seguito a Valladolid, morendo il 20 maggio 1506 all'età di 54 anni, alla vigilia dell'Ascensione, a causa di un attacco di cuore dovuto alla sindrome di Reiter, come ipotizzato dallo studioso Antonio Rodriguez Cuartero dell'Università di Granada e dichiarato in una pubblicazione del febbraio 2007.[senza fonte] I sintomi di tale malattia sono stati ritrovati nei diari di Colombo e negli scritti dei suoi contemporanei: dolore durante la minzione, rigonfiamento e indebolimento delle ginocchia e congiuntivite, diventati evidenti negli ultimi tre anni di vita.[145]

Teca contenente alcune ossa di Cristoforo Colombo nella Biblioteca universitaria di Pavia

Il funerale probabilmente avvenne nella chiesa di Santa Maria de la Antigua; il corpo fu inizialmente sepolto nel chiostro di San Francesco[142], quindi fu inumato nel 1518 nella cripta di un monastero a La Cartuja di Siviglia, dove venne poi sepolto anche il figlio Diego[142]. Nel 1537, autorizzata da Carlo V, la vedova di Diego dette seguito alla richiesta testamentaria del marito di trasferire le spoglie dei Colombo (Cristoforo, la moglie e i fratelli Bartolomeo e Giacomo) a Hispaniola, nella cattedrale di Santo Domingo; le spoglie furono messe nella tomba della famiglia costruita da Luis Colombo, figlio di Diego, nel coro della cattedrale.[142] Santo Domingo venne occupata da Francis Drake e saccheggiata, inclusa la cattedrale e non è da escludere che i resti di Cristoforo siano stati portati in Inghilterra dal corsaro assieme ai corredi sepolcrali, avendo avuto l'incarico da Elisabetta I di prendere i simboli del dominio spagnolo nelle Americhe.[142] Tempo dopo, l'arcivescovo Francisco Pio sostenne di aver nascosto le spoglie dell'esploratore prima dell'occupazione della città da parte di William Penn, ma non si sa se parlasse delle spoglie di Cristoforo o dei due nipoti Cristobal Colombo II e Luis Colombo.[142] Nella seconda metà del XVIII secolo venne scoperta in una nicchia della cattedrale una cassetta di piombo con dei resti umani; essendo l'isola stata ceduta ai francesi nel 1795, questa venne spostata nella cattedrale dell'Avana e poi, nel 1898 in seguito alla vittoria degli Stati Uniti nella guerra ispano-americana, di nuovo a Siviglia in un elaborato catafalco.[146][147] Nella biblioteca Universitaria di Pavia si conservano, in una teca, alcune piccole ossa di Cristoforo Colombo donate dal nunzio apostolico a Cuba nel 1880.[148]

La disputa sulla "vera" tomba

Nel 1877, durante i lavori di restauro della cattedrale di Santo Domingo, venne scoperta da parte del cappuccino italiano Rocco de Cesinali una cassa di piombo contenente 13 frammenti d'osso grandi e 28 piccoli; su di essa c'era una scritta recitante: «Uomo celebre ed eletto - Don Cristoval Colon - Scopritore dell'America - Primo Ammiraglio».[142] Le spoglie riposano al faro di Colombo, voluto dal governo dominicano (convinto che nel 1795 si siano riportate per sbaglio in Spagna le ossa del figlio Diego) a perenne memoria dello scopritore del continente americano.[146][149] Nonostante ciò, oggi è considerato un falso.[142] In occasione del giubileo del 1892, in previsione di una possibile canonizzazione, l'università di Pavia e Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi dichiararono di possedere già alcune ossa di Colombo, così come il governo spagnolo: le spoglie all'Avana vennero spostate nella cattedrale di Siviglia, ove era già seppellito Fernando Colombo.[142]

Nel giugno del 2002 i professori spagnoli Marcial Castro e Sergio Algarrada hanno cercato di risolvere il problema del luogo di sepoltura di Colombo, reclamato per l'appunto dalla cattedrale di Santo Domingo e da quella di Siviglia. L'intento dei due studiosi era di estrarre, con l'aiuto dell'Università di Granada, del DNA dai resti umani di entrambe le cattedrali e quindi compararlo con il DNA del secondogenito Fernando (figlio naturale avuto dall'unione con Beatriz Enriquez de Arana), la cui identità è certa.[149] Se le autorità andaluse (comunità autonoma dove si trova Siviglia) hanno formalmente chiesto autorizzazione alla cattedrale di Siviglia per riesumare i resti del presunto Colombo, altrettanto non hanno fatto le autorità della Repubblica Dominicana.[146] L'Università di Granada, nel giugno 2003, ha comunque proceduto al prelievo del DNA dalle ossa di Siviglia[150] e a un'osservazione delle stesse.

Cristoforo Colombo sulla tolda della nave indica la via per il Nuovo mondo. Particolare di un manifesto illustrativo per l'esposizione italo-americana del 1892, tenuta in occasione del quattrocentenario della scoperta dell'America

Proprio in questa fase parve che le ossa non coincidessero con quelle di una persona dalle caratteristiche fisiche, o con l'età al momento della morte, di Cristoforo,[151] ma il DNA isolato (in realtà un piccolo frammento di mtDNA) ha evidenziato una corrispondenza con quello del fratello Giacomo, prova che entrambi ebbero la stessa madre.[152][153] Questa prova, unita ad analisi antropologiche e storiche, ha rafforzato nei ricercatori l'idea che la vera tomba di Cristoforo Colombo sia quella posizionata nella cattedrale di Siviglia.[154] Visto che non è stato possibile esaminare i frammenti umani di Santo Domingo, non è noto se anch'essi appartengano a Cristoforo Colombo.[153][154]

Errore di calcolo

L'impresa navale di Colombo, motivata dal desiderio di raggiungere le Indie e commerciarvi direttamente e più velocemente, fu resa possibile dalla determinazione del viaggiatore genovese ma paradossalmente anche – come avviene nel caso di molte scoperte – da un suo errore. Egli sosteneva che la Terra avesse un diametro più piccolo di quello effettivo.[155] A quell'epoca, in effetti, nessuna nave sarebbe stata in grado di compiere gli oltre 20000 km che separano la Spagna dal Giappone, se non altro perché non esisteva nave capace di stoccare a bordo un quantitativo di provviste sufficienti al compimento del viaggio, che avrebbe richiesto – in condizioni ottimali – più di quattro mesi. I calcoli di Colombo erano sbagliati, mentre quelli dei suoi avversari erano sostanzialmente corretti: Colombo stimava in appena 4400 km la distanza dalle isole Canarie alla costa asiatica, un valore cinque volte più piccolo di quello reale.

La grande fortuna di Colombo fu che il suo viaggio venne molto ridotto, perché sulla strada per le Indie trovò le Americhe, altrimenti la sua spedizione sarebbe sicuramente perita in mezzo all'oceano, o sarebbe tornata indietro. La forte opposizione che Colombo incontrò derivava dal fatto che la traversata oceanica era considerata troppo lunga per essere fattibile e non già dalla credenza che la Terra fosse piatta. La consapevolezza della sfericità della Terra era opinione comune già della gente colta del basso Medioevo (per tutti, si possono citare Tommaso d'Aquino e Dante Alighieri). Già dall'antichità, le osservazioni prodotte in ambiente astronomico-matematico ellenistico (dove la circonferenza della Terra era stata accuratamente misurata da Eratostene) erano state riprese e perfezionate dagli scienziati musulmani, che avevano tradotto e studiato quei testi, e dagli studiosi occidentali.

Oltretutto, all'epoca in cui Colombo effettuò i suoi calcoli per il compimento del primo viaggio, il procedimento di Eratostene (che fornisce una stima della misura della circonferenza terrestre con un margine di errore minore del 5%) era disponibile e avrebbe potuto essere ripetuto. Colombo stesso non si rese conto di essere su un continente diverso da quello che si aspettava: in seguito, come annotò sui suoi diari, battezzò le terre scoperte nuevo mundo e nel terzo viaggio dubitò di essere giunto in un nuovo continente.[156] La leggenda che la Terra fosse considerata piatta deriva da un romanzo del 1828, La vita e i viaggi di Cristoforo Colombo di Washington Irving, che, in odio alla Chiesa cattolica, descriveva la falsa immagine di un Colombo unico sostenitore della teoria di una Terra rotonda contro la pretesa ignoranza medioevale imposta dal cattolicesimo[157]. In realtà, come si è scritto in precedenza, l'appoggio ecclesiastico a Colombo fu determinante nel vincere proprio le resistenze dei suoi avversari all'organizzazione e al finanziamento del primo viaggio.

Colombo e l'apocalittica medievale

«Cominciai a navigare per mare ad un'età molto giovane, e ho continuato fino ad ora. Questa professione crea in me una curiosità circa i segreti del mondo. Durante gli anni della mia formazione, studiai testi di ogni genere: cosmografia, storie, cronache, filosofia e altre discipline. Attraverso questi scritti, la mano di nostro Signore aprì la mia mente alla possibilità di navigare fino alle Indie, e mi diede la volontà di tentare questo viaggio. Chi potrebbe dubitare che questo lampo di conoscenza non fosse l'opera dello Spirito santo?»

(Cristoforo Colombo, Libro delle profezie, 67)

I primi esploratori del Nuovo Mondo portarono con sé, in quella che sarebbe poi stata chiamata "America", un vasto bagaglio di convinzioni, attese, pronostici, che appartenevano al patrimonio delle attese apocalittiche ed escatologiche del Basso Medioevo. In questa trasmissione, Cristoforo Colombo giocò un ruolo importantissimo. Uomo caratterizzato da una grande devozione personale,[158] conoscitore dei testi di Gioacchino da Fiore sull'avvento della "terza epoca" della storia, l'epoca dello Spirito Santo, Colombo era certo di ricoprire un ruolo importante nel futuro provvidenziale dei regni ispanici. In questa visione apocalittica, i suoi viaggi erano il penultimo episodio, prima della riconquista di Gerusalemme, l'avvenimento che avrebbe dato l'avvio agli "ultimi tempi" e all'instaurazione del millennio di pace, a sua volta preludio della fine del mondo.

Colombo compilò anche un'opera profetica e propagandistica, il Liber prophetiarum ("Libro delle profezie"), in cui tesseva le lodi di Isabella di Castiglia e Fernando d'Aragona e dei regni ispanici sui quali essi regnavano, con la consapevolezza che i "re cattolici" avrebbero occupato un ruolo provvidenziale nella storia cristiana. In quest'opera, Colombo ribadiva che, in tutti i viaggi che aveva intrapreso, egli aveva agito in accordo con i due sovrani e sotto il potere spirituale di papa Alessandro VI. Colombo compose questo libro per collocare le sue scoperte all'interno di una più ampia sequenza di eventi, che sarebbero stati cruciali per la salvezza dell'umanità: ai suoi occhi, la scoperta della nuova via verso l'Oriente rappresentava il primo passo verso la liberazione di Gerusalemme e della Terra santa dal dominio musulmano. In esso Colombo affermava:

«Dico che io debbo allo Spirito Santo tutta la mia navigazione dalla mia giovinezza in poi.[159]»
Statua di Cristoforo Colombo a Genova

In questa prospettiva, Colombo vedeva i sovrani di Castiglia e Aragona come attori fondamentali nel rinnovamento del mondo:

«Altezze, pensate a quanto poco denaro e fatica vi sia costata la riconquista del Regno di Granada! L'abate calabrese Gioacchino da Fiore disse che colui che ricostruirà il Santuario sul monte Sion verrà dalla Spagna.[160]»

Colombo era anche sicuro che un ruolo speciale era riservato ai Francescani nelle attività missionarie che si sarebbero avviate e vedeva le Americhe come la nuova arena in cui il proselitismo cristiano avrebbe potuto realizzarsi. Di fatto, anche i missionari europei che cominciavano a incontrare gli indigeni americani, contestualizzavano queste popolazioni, nel quadro della loro visione provvidenzialistica della storia, come l'ultimo popolo pagano la cui conversione (prima di quella degli Ebrei e del ristabilimento di Gerusalemme come capitale dell'umanità) avrebbe portato a compimento le attese medievali della futura Apocalisse.[161]

Nonostante tutto questo, però, poiché l'unico manoscritto del "Libro delle profezie" rimase nella biblioteca della famiglia Colombo a Siviglia, sembra ragionevole supporre che quest'opera non sia mai stata inviata ai sovrani ispanici e che Colombo abbia portato il codice con sé nel suo quarto e ultimo viaggio.[162]

Retrodatazione della scoperta dell'America

Lo stesso argomento in dettaglio: Colonizzazione europea delle Americhe § Retrodatazione della scoperta dell'America.

Prima di Colombo già alcuni popoli avevano compiuto dei tentativi verso il nuovo continente, come ad esempio i vichinghi (che certamente giunsero a Terranova) e i portoghesi, che avevano colonizzato le Azzorre, situate al largo nell'Atlantico; alcuni colonizzatori islandesi erano giunti inoltre in Groenlandia verso il finire del X secolo. Comunque, nonostante l'America fosse già stata quasi sicuramente raggiunta da altri popoli, a Colombo va il fatto di aver innescato uno straordinario processo di colonizzazione del nuovo mondo, portando così alla vera e propria scoperta di esso da parte di tutti. I vichinghi e gli islandesi non colonizzarono su larga scala le nuove terre scoperte, abbandonandole dopo poco, probabilmente perché molto lontane e in parte inospitali.

Secondo il giornalista Ruggero Marino[163] la scoperta dell'America da parte di Colombo sarebbe da anticipare di qualche anno. Secondo queste tesi, il navigatore avrebbe compiuto già nel 1485 un viaggio che lo avrebbe portato nel Nuovo Mondo. Questo lo si potrebbe dedurre da vari indizi: la rotta seguita da Colombo nel primo viaggio nel 1492 segue esattamente le correnti, inoltre, sulla tomba di papa Innocenzo VIII è riportata la frase "Durante il suo regno la scoperta di un Nuovo Mondo". Il papa però morì il 25 luglio 1492, alcuni giorni prima della partenza ufficiale. L'autore di detta iscrizione può avere sia fatto semplice riferimento all'ultimo anno solare in cui visse Innocenzo VIII, appunto il 1492, quanto all'oggi noto ruolo di "protettore" che detto papa ebbe nei confronti di Colombo[164]. È da notare anche che il navigatore turco Piri Reìs, nella sua famosa mappa, realizzata nei primi decenni del XVI secolo, annotò che la zona delle Antille era stata scoperta nell'anno del calendario islamico 896 (corrispondente al 1490/1491 dell'era cristiana) da parte di un genovese infedele di nome Colombo[165].

La causa per l'eredità e la discendenza

Lo stesso argomento in dettaglio: Causa per il maggiorasco di Cristoforo Colombo.

Nel 1497 i sovrani di Castiglia e Aragona concessero a Colombo la facoltà di istituire un maggiorasco, cosa che il navigatore fece nell'anno successivo tramite testamento (un altro testamento venne fatto nel 1502 e altri codicilli nel 1506). Colombo precisò che il maggiorasco dovesse essere ereditato solamente da un discendente maschio, oppure, in assenza di questo, dai parenti.[166] Deceduto Colombo, il maggiorasco passò al figlio Diego e quindi, alla morte di questo, al figlio Luigi, il quale ebbe delle controversie con l'imperatore Carlo V circa il modo con cui conferire le cariche e recepire le entrate fiscali. Venne infine raggiunto un accordo secondo cui a Luigi spettava il titolo di marchese della Giamaica, invece che di governatore, il Ducato di Veragua e una rendita fissa a vita in luogo della decima convenuta nelle capitolazioni da suo nonno Cristoforo. Luigi morì senza discendenti maschi, per cui l'eredità andò al nipote Diego, ultimo discendente maschio in linea retta da Cristoforo Colombo, morto nel 1578 senza figli.[167]

Scorcio di Cuccaro Monferrato (AL)

Sorse allora una controversia fra i presunti eredi, complicata anche dal fatto che non si riuscì a trovare il testamento del 1502 ma solo quello del 1498 e dei codicilli del 1506. Il 4 ottobre 1583 il re Filippo II di Spagna scrisse una lettera al duca di Mantova e duca del Monferrato Guglielmo Gonzaga per informarlo che alla sua corte era in corso una disputa tra Cristoforo di Cardona (ammiraglio delle Indie), Francesca Colombo, Alvaro di Portogallo (conte di Gelves), Giovanna di Toledo, la badessa e le monache del convento di Valladolid, Maria Colombo (monaca dello stesso convento di Valladolid), Cristoforo Colombo (fratello di Luigi, con lo stesso nome dello scopritore del Nuovo Mondo) e Baldassare Colombo.

Proprio le pretese di Baldassarre spinsero Filippo II a chiedere a Guglielmo Gonzaga di interrogare sotto giuramento dei testimoni nel Monferrato e, entro sei mesi, inviare una relazione scritta al supremo tribunale di Spagna.[168] I punti da chiarire erano l'appartenenza all'antica famiglia dei Colombo di Cuccaro Monferrato; il legame di parentela tra gli avi di Cristoforo Colombo e quelli di Baldassarre; la presenza del nome di Domenico Colombo, padre di Cristoforo, tra le scritture pubbliche di Cuccaro; e il fatto che Cristoforo Colombo fosse discendente dei Colombo del castello di Cuccaro. Erano poi da raccogliere il più alto numero possibile di testimonianze sulle sorti e l'ubicazione del ramo di Cuccaro dei Colombo e sul perché tutti parlavano di Cristoforo come di un genovese anziché di un cuccarese.[169]

Il duca di Mantova delegò quindi il senatore Ferrari e due notai di procedere con le indagini, vidimate poi dal Senato di Mantova e dal vescovo di Casale Monferrato e inviate nella penisola iberica.[170] La causa, celebratasi dinanzi al Consiglio delle Indie, si protrasse finché, il 22 dicembre 1608,[171] il maggiorasco venne assegnato a Pedro Nuño Colón de Portugal, maschio ma discendente in linea femminile (figlio di Alvaro di Portogallo, a sua volta figlio di Isabella Colombo, figlia di Diego Colombo nonché nipote di Cristoforo).[172] Baldassarre Colombo, che pure era stato riconosciuto come parente dell'ammiraglio,[173] rimase escluso perché non ritenuto, come Pedro Nuño, il parente più prossimo dello scopritore del Nuovo Mondo.

Tuttavia, a Baldassarre venne dato il titolo di conte e venne assegnata una somma di 2000 ducati[171] come parte della rendita dello Stato di Veragua. Lo studio effettuato nei primi anni del 1800 da Gian Francesco Galleani Napione di altri documenti custoditi dal discendente Guglielmo Fedele Colombo,[174] ha provato l'estinzione delle due linee della famiglia Colombo: una del Baldassarre, l'altra di Ascanio Colombo, vivente ancora nel 1652. Guglielmo Fedele era invece discendente dall'unico ramo noto della famiglia Colombo ancora vivo, quello cioè di Cuccaro, estintosi poi anche questo nel 1877 con Luigi Colombo, prelato di Gregorio XVI e Pio IX.[175][176] Luca Antonio Colombo, padre di Guglielmo Fedele, venne investito di porzioni del feudo di Cuccaro l'8 giugno 1737, passate poi con cerimonia solenne al fratello Francesco Veremondo il 27 giugno 1769.[177]

Aspetti controversi

Lo stesso argomento in dettaglio: Controversie su memoriali e monumenti negli Stati Uniti d'America § Cristoforo Colombo.

Memoriale

Nel Memorial de Cristobal Colon a los Reyes Catolicos sobre las cosas necesarias para abastecer a las Indias[178] ("Memoriale di Cristoforo Colombo ai re cattolici sulle cose necessarie per le Indie"), egli scrisse: "Il nuovo Mondo dovrebbe essere organizzato, fin quando non si siano stabiliti commerci con i ricchi imperi asiatici, in un numero di fattorie, come quelle create dai portoghesi in Africa nel corso del XV secolo in modo da: ottenere oro, schiavi e altri beni attraverso il pacifico riscatto o tramite baratto con i nativi", o tramite sfruttamento diretto delle risorse, "utilizzando il lavoro dei nativi, che è più economico del lavoro importato dall'Europa, libero o schiavo".[178] Inoltre speciale importanza è data "alle persone di buona coscienza necessarie per[178] amministrare la giustizia, sia per gli spagnoli sia per i nativi, che invece sono trattati entrambi più seguendo la crudeltà che la ragione"[178]. Il memoriale dimostra che:

  • lo scopritore, negli ultimi anni della sua vita, sostenne la stessa idea ("un'idea non violenta", sebbene si rivelò tale), riguardo all'organizzazione del Nuovo Mondo che egli aveva maturato nel periodo precedente alla scoperta;[178]
  • sebbene crimini furono commessi durante la vita e dopo la morte di Colombo, la maggior parte di essi non sono imputabili al Colombo stesso;[178][179][180]
  • Colombo creò quello che a tutt'oggi appare un "sistema schiavistico", un sistema diffuso delle società di quel tempo e frutto delle ideologie europee dell'epoca[181]. Altri esempi di tale sistema sono la fortezza di Elmina nell'attuale Ghana, costruito dai portoghesi nel 1482 e perno del commercio degli schiavi, le encomiende e la servitù della gleba);[178]
  • Colombo utilizzò metodi molto violenti, sia verso i nativi, sia verso i compatrioti[137][182] sebbene essi contrastassero con le sue idee.[178][179][180]

Caratteristiche fisiche

Nonostante l'abbondante numero di opere d'arte raffiguranti Cristoforo Colombo, non si hanno dei ritratti autentici che lo raffigurino.[183] Tutti quelli pervenutici sono in realtà dei dipinti eseguiti dopo la morte del famoso navigatore, realizzati in base alle descrizioni dei suoi contemporanei o in alcuni casi delle vere e proprie opere di fantasia di epoche successive, fra le più celebri quella di Sebastiano del Piombo del 1519 dove il navigatore ha dei capelli color rame.[184] Questo spiega il perché dell'enorme quantità di effigi che descrivono Colombo e che gli conferiscono una svariata molteplicità di aspetti, rendendo difficile stabilire con certezza quali fossero le sue vere caratteristiche fisiche. Il primo quadro concernente la scoperta del Nuovo Mondo, dove si può ammirare anche il volto di Colombo, è ritenuto essere la Madonna dei Navigatori di Alejo Fernández, realizzato tra il 1531 e il 1536 per la Casa de Contratación di Siviglia.[185]

Secondo le poche testimonianze del suo aspetto aveva dei capelli biondi ardenti, carnagione chiara leggermente lentigginosa, alto più di 1,80 m,[186] con occhi chiari, azzurri o grigi.[187] All'esposizione mondiale di Colombo del 1893 vennero messi in mostra 71 suoi ritratti,[188] rappresentanti Colombo con capelli rossi o biondi, che nella realtà diventarono brizzolati relativamente presto, occhi chiari[189] e un colorito della pelle chiaro reso rosso dalla prolungata esposizione al sole.

    • Ritratto postumo eseguito da Ridolfo Ghirlandaio, circa 1520
      Ritratto postumo eseguito da Ridolfo Ghirlandaio, circa 1520

 

    • Ritratto postumo pubblicato nel 1551 in un'opera di Paolo Giovio
      Ritratto postumo pubblicato nel 1551 in un'opera di Paolo Giovio

 

  • Particolare del viso di Colombo nella Madonna dei Navigatori di Alejo Fernández, 1531-1536
    Particolare del viso di Colombo nella Madonna dei Navigatori di Alejo Fernández, 1531-1536

Dibattito sulla nazionalità

Lo stesso argomento in dettaglio: Origini di Cristoforo Colombo.
Monumento dedicato a Cristoforo Colombo a Rapallo in Liguria

Vi sono varie idee circa il luogo di nascita di Colombo. Alla teoria classica e universalmente nota che indica Genova come città natale del navigatore, si contrappongono in Italia i centri liguri di Savona, Cogoleto e Terrarossa Colombo (frazione del comune di Moconesi) oltre a Cuccaro Monferrato e Bettola, tutti luoghi che comunque all'epoca erano nell'area della Repubblica di Genova. Fuori dall'odierna Italia, i paesi che rivendicano i natali di Colombo sono la Spagna (con possibile origine ebraica), il Portogallo (spia ingaggiata per sviare l'attenzione spagnola dall'Africa) e la Polonia (figlio del re Ladislao III). Fra le prime citazioni alla nazionalità ligure di Colombo v'è quella presente in una lettera datata a maggio 1493 inviata da Pietro Martire D'Anghiera al conte Giovanni Borromeo, dove è espressamente citato Christophorus quidam Colonus vir Ligur ("un certo Cristoforo Colono uomo ligure").[190] Un altro precoce riferimento all'origine genovese di Colombo è il libro De dictis factisque memorabilibus collectanea: a Camillo Gilino latina facta del doge di Genova Battista Fregoso (1440-1504), pubblicato a Milano nel 1509[191] e dove si parla di un Christophorus Columbus natione Genuensi. Francesco Guicciardini, nella sua Storia d'Italia del 1538,[192] João de Barros, nel suo L'Asia (1552)[193] e Torquato Tasso (1544-1595), nella Gerusalemme liberata del 1581[194] indicano Colombo come genovese o ligure. Altri famosi scrittori e umanisti portoghesi, come Damião de Góis e Garcia de Resende, nelle loro cronache ufficiali hanno confermato le origini genovesi di Colombo.[195]

Data di nascita

Iscrizione presso il museo di Colombo a Cuccaro Monferrato rivendicante la presunta natalità del navigatore nelle terre monferrine

Per guardare, come sopra anticipato, con maggiore esattezza la sua nascita, datata proprio tra il 26 agosto e il 31 ottobre 1451, vanno in effetti considerati due documenti particolarmente fondamentali. Il primo fu rinvenuto da Marcello Staglieno nell'Archivio di Stato in Genova.[196] Si tratta di un documento in data Genova 31 ottobre 1470, negli atti del notaro Nicola Raggio (filza 2, anno 1470, n. 905) nel quale Cristoforo Colombo, figlio di Domenico, dichiarava di avere un'età superiore ai 19 anni: non avendo ancora raggiunta la maggiore età, ovvero i 25 anni, la sua data di nascita venne collocata tra il 1446 e il 1451. Tuttavia nel 1904 un altro studioso, il generale Ugo Assereto, rinvenne nell'Archivio di Stato genovese un secondo documento[197] noto agli studiosi come "documento Assereto".

In esso, in data Genova 25 agosto 1479 negli atti del notaro Gerolamo Ventimiglia (filza 2, n. 266), Cristoforo Colombo dichiarava di essere nato in Genova e di avere "approssimativamente" l'età di 27 anni (tale documento è di estrema importanza anche perché quella sua pur breve presenza a Genova rimane l'ultima documentata; e soprattutto perché Cristoforo Colombo, vi fornì dati biografici coincidenti con quelli, acclarati anche da quanti non lo vogliono nativo di Genova, relativi per l'appunto al futuro «Cristóbal Colón descubridór de las Yndias»: Cristoforo cioè precisò anche di avere soggiornato a Lisbona da più di un anno, di avere fatto un viaggio a Madera e di essere sul punto di tornare nella stessa Lisbona quale viaggiatore commerciale e quale cliente fiduciario al servizio di mercanti genovesi stabilitisi a Lisbona, quegli stessi Lodisio Centurione e Paolo Di Negro i cui eredi vennero poi ricordati da lui e dal figlio Diego nei loro testamenti, rispettivamente dei 1506 e 1523).

Per tornare alla sua nascita, sulla base dei due documenti rinvenuti da Staglieno e Assereto, essa deve collocarsi tra quel 26 agosto e quel 31 ottobre 1451, ovvero proprio nel periodo in cui – sulla base di un documento in data Genova 16 aprile 1451, conservato nell'Archivio di Stato genovese-Archivio Segreto, «Manuali Decretorum», n. 1, n. gen. 734, c. 418 T – il padre Domenico e la madre Susanna Fontanarossa già abitavano in una casa in vico Diritto dell'Olivella.

In essa egli rimase per circa quattro anni. Lo si evince da un ulteriore documento del 18 gennaio 1455 (conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana - God. 9452, parte II, carta 219 T., «Estratto dal libro degli lnstrumenti del fu Giovanni Recco Notaio, c. 391»), nel quale si legge che, immediatamente dopo tale data, Domenico Colombo doveva trasferirsi con la propria famiglia in una nuova casa con giardino nel vico Diritto di Ponticello, fuori della porta di Sant'Andrea, dove a pianterreno aprì la sua bottega di tessitore (textor pannorum) nella quale visse il giovanissimo Cristoforo, non ancora quattrenne. Ovvero nella «casa di Colombo», di cui a tutt'oggi sono conservate le vestigia, in quello che continua a essere chiamato vico Diritto di Ponticello, da cui si allontanò nel 1470 quando i genitori si trasferirono a Savona.[198]

Altri studi,[199] anch'essi pubblicati dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del V Centenario della scoperta dell'America, concludono che la famiglia di Cristoforo era di origine spagnola, appartenente a un ceppo ebraico di ebrei convertiti (o, come allora si diceva in Castiglia, di marranos): e come suo nonno Giovanni scappasse all'alba del XV secolo probabilmente dalla Spagna a Genova, anch'essa tuttavia ampiamente antisemita, per sfuggire alle persecuzioni cui anche i "cristiani nuovi", marranos o moriscos che fossero, venivano sottoposti.

Tale ipotesi non è peraltro cosa nuova, in quanto già formulata nel 1940 da un altro sostenitore semitico: Salvador de Madariaga; portando a conforto della tesi la mancata presenza, negli Archivi ecclesiali e in quelli di Stato consultati dai ricercatori negli ultimi due secoli, di qualsiasi documento su altri avi di Cristoforo: gli unici documenti sono infatti relativi a suo padre Domenico e a suo nonno Giovanni.

Lo stemma

Evoluzione dello stemma di Cristoforo Colombo
Stemma della famiglia Colombo (attestato dal 1493).
Stemma di Cristoforo Colombo concesso nel 1493.
 
Stemma di Cristoforo Colombo del 1502.
Stemma postumo di Cristoforo Colombo, per volontà del re Ferdinando d'Aragona.
 

Lo stemma di Cristoforo Colombo venne concesso con decreto reale dai sovrano del Regno di Castiglia e León il 20 maggio 1493 durante la convocazione a Barcellona in occasione del resoconto del viaggio di scoperta delle Indie.[200]

Lo stemma del 1493 è un inquartato. I primi due quarti ricordano gli stemmi di Castiglia (di rosso al castello d'oro) e León (d'argento al leone di porpora) modificati: il primo, infatti, presenta un campo verde anziché rosso e, il secondo presenta il leone non è coronato. Nel terzo quarto sono rappresentate le isole scoperte da Colombo, nel quarto quarto si trova «las armas vuestras que soliades tener, las cuales armas sean conocidas por vuestras, e de vuestros fijos e descendentes para siempre jamas», ovvero un'arma di famiglia, tuttavia sconosciuta fino ad allora (d'oro alla banda d'azzurro con il capo di rosso).[200][201] Esistono molti dubbi che sia autentica e preesistente, probabilmente venne accordata contestualmente alla concessione dello stemma.[200]

Lo stemma venne modificato da Cristoforo Colombo poco tempo dopo e utilizzato come frontespizio del Codice dei Privilegi di 1502 (redatto per difendere i propri diritti come scopritore delle nuove terre). Nello stemma compaiono i primi due quarti esattamente come appaiono nello stemma di Castiglia e Leon (il campo del primo da verde diventa rosso ed il leone risulta coronato), alle isole fu aggiunta una striscia di terraferma a forma di Y[202] e fu aggiunto un quarto quarto d'azzurro a cinque ancore in fascia d'oro per sottolineare il suo titolo di "Ammiraglio del Mar Oceano"; lo stemma della famiglia Colombo venne posto innestato in punta.[200][201]

Dopo la morte di Cristoforo Colombo il 20 maggio 1506, il re Ferdinando di Aragona, vedovo della regina Isabella e reggente del regno di Castiglia, ordinò di aggiungere una bordura d'argento caricata con il motto in lettere di nero «A Castilla y León dio nuevo mundo Colón» ("A Castiglia e León Colombo ha dato un nuovo mondo"). La bordura è citata dallo storico Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés nella sua Historia general de Las Indias, islas y tierra firme dal mar Océano del 1535

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guerra dei trent'anni

La guerra dei trent'anni indica una serie di conflitti armati che dilaniarono l'Europa centrale tra il 1618 e il 1648. Fu una delle guerre più lunghe e distruttive della storia europea.[5] La guerra può essere suddivisa in quattro fasi: boemo-palatina (1618–1625), danese (1625–1629), svedese (1630–1635) e francese (1635–1648). Ci sono inoltre storici che riconoscono anche l'esistenza di una quinta fase oltre alle quattro canoniche: il "periodo italiano" (1628-1631), corrispondente alla guerra di successione di Mantova e del Monferrato,[6] assieme al quale si possono prendere in considerazione anche altri scontri come quelli della guerra di Valtellina e della guerra franco-spagnola fino al 1648.

Iniziata come conflitto tra gli Stati protestanti e quelli cattolici nel frammentato Sacro Romano Impero, progressivamente si evolse in una guerra su vasta scala, coinvolgendo la maggior parte delle grandi potenze del Vecchio Continente, inquadrandosi nell'ambito della rivalità franco-asburgica per l'egemonia sulla scena europea.

La guerra ebbe inizio quando il Sacro Romano Impero cercò d'imporre l'uniformità religiosa sui suoi domini. Gli Stati protestanti del nord, indignati per la violazione dei loro diritti acquisiti con la pace di Augusta, si unirono formando l'unione evangelica. L'impero contrastò immediatamente questa lega, percependola come un tentativo di ribellione, suscitando le reazioni negative di tutto il mondo protestante. La Svezia intervenne nel 1630, lanciando un'offensiva su larga scala nel continente. La Spagna, intenzionata a piegare i ribelli olandesi, intervenne con il pretesto di aiutare il suo alleato dinastico, l'Austria. Temendo l'accerchiamento da parte delle due grandi potenze degli Asburgo, la cattolica Francia entrò nella coalizione a fianco dei territori protestanti tedeschi per contrastare l'Austria.

La guerra, caratterizzata da gravissime e ripetute devastazioni di centri abitati e campagne, da uccisioni di massa, da operazioni militari condotte con spietata ferocia da eserciti mercenari spesso protagonisti di saccheggi, oltre che da micidiali epidemie e carestie, fu una catastrofe epocale, in particolare per i territori dell'Europa centrale.[7] Secondo l'accademico Nicolao Merker, la guerra dei trent'anni, che avrebbe provocato 12 milioni di morti, fu "in assoluto la maggiore catastrofe mai abbattutasi" sulla Germania.[8]

Il conflitto si concluse con i trattati di Osnabrück e Münster, che complessivamente prendono il nome di pace di Westfalia (1648). Gli eventi bellici modificarono il precedente assetto politico delle potenze europee. L'incremento del potere dei Borbone in Francia, la riduzione delle ambizioni degli Asburgo e l'ascesa della Svezia come grande potenza crearono nuovi equilibri di potere nel continente. La posizione dominante della Francia contraddistinse la politica europea fino al XVIII secolo, quando, in seguito alla guerra dei sette anni, la Gran Bretagna assunse un ruolo centrale. Fu sancita una certa libertà religiosa, consentendo ai sudditi di professare - almeno in privato - una religione diversa rispetto a quella del proprio sovrano (obbligo che invece era imposto con la Pace di Augusta del 1555, sancendo la contrapposizione politica tra cattolici e protestanti). Si poneva così fine a oltre un secolo di guerre di religione iniziate con lo scisma luterano. Con la pace di Westfalia venne stabilito anche il diritto di non ingerenza negli affari interni degli Stati, un principio fondamentale della diplomazia moderna.

Le cause della guerra

Le cause del conflitto furono varie, anche se la principale fu rappresentata dall'opposizione religiosa e politica tra cattolici e protestanti. La pace di Augusta, firmata dall'imperatore Carlo V d'Asburgo nel 1555, aveva confermato gli indirizzi della Dieta di Spira del 1526, ponendo fine agli scontri fra cattolici e luterani. In essa si stabiliva che:[9]

  • i governanti dei 251 Stati tedeschi potevano scegliere la religione (il luteranesimo o il cattolicesimo) dei loro regni secondo coscienza, e i loro sudditi erano costretti a seguire la fede scelta (il principio del cuius regio, eius religio);
  • i luterani che vivevano in un principato vescovile (uno Stato governato da un vescovo cattolico) avrebbero potuto continuare a praticare la loro fede;
  • i luterani potevano mantenere il territorio che avevano conquistato dalla Chiesa cattolica durante la pace di Passavia nel 1552;
  • i principi vescovi che si erano convertiti al luteranesimo erano tenuti a rinunciare ai loro territori (il principio chiamato reservatum ecclesiasticum).

Anche se la pace di Augusta mise una temporanea fine alle ostilità, vari problemi rimasero però aperti: oltre al fatto che i luterani più di tutti consideravano la pace solo una tregua temporanea, i termini del trattato prevedevano che i principi aderissero al cattolicesimo o al luteranesimo, con esclusione di ogni altro credo che andava diffondendosi rapidamente in varie aree della Germania, incluso il calvinismo.[10] Ciò aggiunse una terza confessione nella regione, la cui posizione non fu però mai riconosciuta in alcun modo negli accordi di Augusta, che prese in considerazione solo il cattolicesimo e il luteranesimo.[11][12]

A queste considerazioni di ordine religioso si aggiunsero tendenze egemoniche o d'indipendenza di vari Stati europei, rivalità commerciali, ambizioni personali e gelosie familiari. La Spagna era interessata a esercitare una decisiva influenza sul Sacro Romano Impero per garantirsi la possibilità di affrontare la guerra con gli olandesi che durava ormai da molti anni, e che sarebbe ripresa apertamente nel 1621, allo scadere cioè della tregua dei dodici anni. In particolare, i governanti delle nazioni confinanti del Sacro Romano Impero contribuirono allo scoppio della guerra dei trent'anni per i seguenti motivi:

  • La Spagna era interessata a mantenere il controllo sugli Stati tedeschi facenti parte del cosiddetto cammino spagnolo, che collegava i Paesi Bassi spagnoli, nella parte occidentale dell'Impero, ai possedimenti italiani. Nel 1566, gli olandesi si ribellarono contro la dominazione spagnola, portando a una lunga guerra di indipendenza che si concluse con una tregua solo nel 1609.
  • La Francia si trovava quasi circondata dal territorio controllato dai due Asburgo - la Spagna e il Sacro Romano Impero - e, sentendosi minacciata, era ansiosa di esercitare il suo potere contro gli Stati tedeschi più deboli. Questa preoccupazione dinastica superò gli interessi religiosi e portò la Francia cattolica a schierarsi sul fronte protestante della guerra.
  • Svezia e Danimarca erano interessate ad acquisire il controllo degli Stati tedeschi del nord che si affacciavano sul Mar Baltico.

All'epoca, e da non poco tempo, il Sacro Romano Impero era un frammentato insieme di Stati in gran parte indipendenti. La posizione del suo Imperatore era principalmente titolare, mentre gli imperatori della Casa d'Asburgo governavano direttamente una vasta porzione di territorio imperiale (l'Arciducato d'Austria e il Regno di Boemia), così come il Regno d'Ungheria. Il dominio austriaco era quindi una grande potenza europea a sé stante, che dominava circa otto milioni di sudditi. Un altro ramo della Casa di Asburgo governava la Spagna e il suo impero, che comprendeva i Paesi Bassi spagnoli, il Sud d'Italia, il Ducato di Milano, il Regno di Sardegna, la Franca Contea, le Filippine, alcuni territori africani e la maggior parte delle Americhe (senza contare le colonie portoghesi, dal momento che tra 1581 e 1640 vi fu un'unione di corone tra Spagna e Portogallo).

Oltre ai possedimenti degli Asburgo, il Sacro Romano Impero era costituito da diverse potenze regionali, come, ad esempio, il Ducato di Baviera, l'Elettorato di Sassonia, la Marca di Brandeburgo, l'Elettorato Palatino, il Langraviato d'Assia, l'Arcivescovado di Treviri e la Città libera di Norimberga, assieme a un vasto numero di ducati minori indipendenti, città libere, abbazie, principi-vescovati e piccole signorie (la cui autorità talvolta era estesa a non più di un singolo Paese) a completarlo. A parte l'Austria e forse la Baviera, nessuna di queste entità era in grado di influenzare la politica a livello nazionale; così, le alleanze tra Stati imparentati erano comuni, dovute in parte alla pratica frequente di dividere l'eredità di un signore tra i suoi vari figli.

Tutto questo portò a una lotta politica fra i principi tedeschi e l'imperatore di Casa Asburgo, il quale desiderava che il titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero non fosse più solamente una figura rappresentativa e un retaggio medievale, ma rappresentasse un potere effettivo sui territori che "nominalmente" appartenevano al Sacro Romano Impero, affermando così l'egemonia degli Asburgo su tutta la Germania e portando a compimento l'impresa fallita da Carlo V. In risposta, Enrico IV di Francia continuò la politica anti-asburgica dei predecessori, convinto del fatto che, se gli spagnoli fossero usciti vittoriosi dalla guerra nei Paesi Bassi e la Germania fosse caduta sotto l'egemonia imperiale, la Francia sarebbe stata schiacciata tra possedimenti asburgici su ogni lato. Questi vari fattori cominciarono a manifestare la loro importanza già a partire dagli ultimi anni del XVI secolo.

La guerra di Colonia e il principio del cuius regio, eius religio

Le tensioni religiose rimasero forti per tutta la seconda metà del XVI secolo. La pace di Augusta cominciò a disfarsi: alcuni vescovi convertiti rifiutarono di rinunciare alle loro diocesi, mentre gli Asburgo e gli altri governanti cattolici del Sacro Romano Impero e la Spagna cercarono di ripristinare il potere del cattolicesimo. I primi scontri, di carattere religioso, si verificarono nel Sacro Romano Impero a causa del reservatum ecclesiasticum, una norma contenuta nella pace di Augusta che stabiliva che le autorità ecclesiastiche convertite al protestantesimo dovessero lasciare i propri territori.

Ciò fu evidente nella guerra di Colonia (1583-1588), un conflitto iniziatosi quando il principe-arcivescovo della città, Gebhard Truchsess von Waldburg, si convertì al calvinismo. Poiché l'arcivescovo di Colonia era anche uno dei principi elettori (Kurfürsten), si sarebbe venuta a creare una maggioranza protestante nel collegio elettorale, prospettiva quantomai temuta dai cattolici tedeschi, che risposero cacciando con la forza l'arcivescovo e ponendo al suo posto Ernesto di Baviera. In seguito a questo successo cattolico, il reservatum ecclesiasticum fu applicato più duramente in vari territori, costringendo i protestanti a emigrare o ad abiurare. I luterani avevano assistito anche alla defezione dei signori del Palatinato (1560), di Nassau (1578), di Assia-Kassel (1603) e di Brandeburgo (1613) alla nuova fede calvinista.

La situazione all'inizio del XVII secolo, dunque, era pressoché la seguente: le terre del Reno e quelle a sud del Danubio erano in gran parte cattoliche; il nord rimaneva saldamente luterano; la Germania centro-occidentale, invece, diveniva, insieme alla Svizzera e ai Paesi Bassi, il fulcro del calvinismo tedesco. C'è però da precisare che minoranze di ogni credo esistevano quasi ovunque (in alcune signorie e città, la percentuale di calvinisti, cattolici e luterani era approssimativamente uguale), frammentando ancor di più un territorio già fortemente diviso.

Con grande costernazione dei loro reali cugini spagnoli, gli imperatori asburgici che succedettero a Carlo V (soprattutto Ferdinando I e Massimiliano II, ma anche Rodolfo II e il suo successore Mattia) furono favorevoli a permettere ai principi dell'Impero di scegliere la propria religione, al fine di evitare sanguinose guerre di religione al suo interno: ciò consentì alle diverse confessioni cristiane di diffondersi senza coercizione, ma allo stesso tempo aumentò lo scontento di coloro che cercavano l'uniformità religiosa.[13] A queste dinamiche interne si aggiunse nel frattempo il dinamismo dei regni luterani di Svezia e di Danimarca, che, perorando la causa protestante all'interno dell'Impero, tentavano di guadagnare influenza politica ed economica.

I fatti di Donauwörth e la Guerra di successione di Jülich

Le tensioni religiose scoppiarono violentemente nel 1606 presso Donauwörth: i protestanti tentarono di impedire ai residenti cattolici di organizzare una processione, dando vita ad aspri tumulti, che terminarono soltanto con l'intervento del cattolico Massimiliano I, duca di Baviera. La città libera dell'Impero Donauwörth fu annessa alla Baviera, perdendo l'immediatezza imperiale e tornando nell'alveo del cattolicesimo. In seguito a tali violenze (e a tale esito della protesta), i calvinisti di Germania, rimasti in minoranza e ritenendosi minacciati dalle azioni del Duca di Baviera, formarono nel 1608 l'Unione evangelica, guidata da Federico IV (1583-1610), Principe Elettore del Palatinato e quindi sovrano di uno di quei territori del Cammino Spagnolo che erano fondamentali per garantire alla Spagna l'accesso ai Paesi Bassi. I cattolici tedeschi risposero creando a loro volta, nel 1609, la Lega cattolica, sotto la guida di Massimiliano I di Baviera.

Le tensioni aumentarono ulteriormente nello stesso 1609, per via della guerra di successione di Jülich, che ebbe inizio quando Giovanni Guglielmo, duca del Jülich-Kleve-Berg, morì senza figli.[14] Subito reclamarono il ducato due pretendenti, entrambi protestanti: Anna di Prussia, figlia di Maria Eleonora, sorella maggiore di Giovanni Guglielmo e sposata con Giovanni Sigismondo di Brandeburgo, che rivendicava il trono in qualità di erede per linea di anzianità; e Volfango Guglielmo, figlio della seconda sorella maggiore di Giovanni Guglielmo, Anna di Clèves, che avanzava delle pretese sul Jülich-Kleve-Berg in quanto primo erede maschio di Giovanni Guglielmo.

Nel 1610, per evitare un conflitto tra i pretendenti, l'imperatore Rodolfo II occupò temporaneamente il Jülich-Kleve-Berg, per evitare che uno dei pretendenti occupasse in forze il ducato e lo mantenesse sotto il suo controllo nonostante la decisione contraria del Concilio Aulico (Reichshofrat). Diversi principi protestanti temevano però che l'imperatore, devoto cattolico, intendesse impossessarsi del Jülich-Kleve-Berg, per evitare che i Ducati Uniti cadessero in mani protestanti.[14] I delegati di Enrico IV di Francia e della Repubblica delle Sette Province Unite riunirono quindi una forza d'invasione per cacciare il cattolico Rodolfo, ma l'impresa fu interrotta a causa dell'assassinio di Enrico IV da parte del fanatico cattolico François Ravaillac.[15]

Nella speranza di ottenere un vantaggio nella controversia, Volfango Guglielmo si convertì al cattolicesimo; Giovanni Sigismondo, d'altro canto, abbracciò il calvinismo (anche se Anna di Prussia rimase luterana).[14] Le "conversioni" portarono a un primo confronto diretto tra la Lega Cattolica, sostenitrice di Volfango Guglielmo, e l'Unione evangelica, che portava avanti le istanze di Giovanni Sigismondo. La questione della successione fu risolta nel 1614 con il trattato di Xanten, con il quale i Ducati Uniti furono disgregati: Jülich e Berg furono assegnati a Volfango Guglielmo, mentre Giovanni Sigismondo acquisì Kleve, Mark e Ravensberg.[14]

La Guerra dei trent'anni

Xilografia contemporanea raffigurante la terza defenestrazione di Praga (1618), che segnò l'inizio della rivolta boema, che diede inizio alla prima parte della Guerra dei trent'anni.

Oltre alle tensioni politiche e religiose persistenti in Germania, aggravava il quadro internazionale degli inizi del XVII secolo la guerra degli ottant'anni, il conflitto iniziato nel 1568 tra la Spagna e la Repubblica delle Sette Province Unite, che si protraeva da decenni in una situazione di sostanziale stallo. Nel 1609 le parti in conflitto giunsero a L'Aia alla firma di una tregua, sebbene fosse chiaro in tutta Europa che le ostilità sarebbero riprese (cosa che avvenne nel 1621) e che gli iberici avrebbero tentato di riconquistare quei territori, che oggi costituiscono i Paesi Bassi.

Era persino ben nota la strategia che l'Impero spagnolo avrebbe adottato al nuovo scoppiare della guerra: le forze iberiche comandate dal generale genovese Ambrogio Spinola, partite dalla Repubblica di Genova, avrebbero attraversato i territori del Ducato di Milano e la Valtellina, sarebbero passate lungo la riva nord del lago di Costanza per evitare l'ostile Svizzera, per poi avanzare attraverso l'Alsazia, l'Arcivescovado di Strasburgo, l'Elettorato del Palatinato, l'Arcivescovado di Treviri, il Ducato di Jülich e il Ducato di Berg fino ai confini delle Sette Province Unite.[16]

L'unico stato ostile che Spinola avrebbe incontrato durante la sua avanzata sarebbe stato il Palatinato: da qui nasce l'enorme importanza strategica che tale nazione assunse negli affari europei di inizio Seicento, importanza del tutto sproporzionata rispetto alle sue esigue dimensioni. Federico V del Palatinato arrivò addirittura a sposare nel 1612 Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I, re d'Inghilterra, Scozia e Irlanda, nonostante la tradizione additasse come degno consorte di una principessa soltanto un altro sovrano.

La Defenestrazione di Praga

Lo stesso argomento in dettaglio: Defenestrazione di Praga (1618).

La scintilla che fece scatenare il conflitto si ebbe nel 1617, quando l'imperatore del Sacro Romano Impero Mattia d'Asburgo, sposato con la cugina Anna ma privo di eredi, abdicò al trono di Boemia in favore del parente maschio più prossimo, ovvero il cugino cattolico (e allievo dei gesuiti) Ferdinando II d'Asburgo, il principe ereditario di Boemia (territorio prevalentemente protestante, soprattutto ussita) che il re di Spagna Filippo III, con il trattato di Oñate, si affrettò a riconoscere in cambio di concessioni territoriali in Italia e Alsazia.

Ferdinando II, all'inizio dell'anno successivo, vietò la costruzione di alcune chiese protestanti e ritirò la lettera di maestà, che concedeva ai boemi libertà di culto. Questo provocò una violenta ribellione che culminò nel celebre episodio della defenestrazione di Praga del 23 maggio 1618: due luogotenenti dell'imperatore e il segretario del Consiglio reale furono scaraventati giù dalle finestre del palazzo reale; i tre rimasero feriti, ma sopravvissero in quanto atterrarono (presumibilmente) sul letame presente nel fossato del castello, non molto più in basso. L'incidente fu comunque la scintilla che segnò l'inizio della guerra dei Trent'anni.

Fase boemo–palatina (1618–1625)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei trent'anni (fase boema).
Mattia d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1612 al 1619.

Negli ultimi anni di vita, l'imperatore Mattia, non avendo avuto alcun figlio dal matrimonio con la cugina Anna, cercò di assicurare una successione all'Impero senza spargimenti di sangue, scegliendo come erede alla corona boema, e quindi al trono imperiale,[17] nel 1617, suo cugino Ferdinando, duca di Stiria e figlio dell'Arciduca Carlo II d'Austria.

Ferdinando II d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Boemia.

La scelta di Ferdinando, cresciuto dai gesuiti presso la cattolicissima corte spagnola e acerrimo nemico della Riforma Protestante, quale erede al trono suscitò le preoccupazioni di alcuni nobili protestanti boemi, che temevano la perdita della libertà di culto assicurata al popolo boemo dall'imperatore Rodolfo II nella sua Lettera di Maestà del 1609.

Tali timori si dimostrarono fondati quando, nel 1618, alcuni ufficiali imperiali si opposero alla costruzione di chiese protestanti nelle stifts, delle terre proprietà dei principi ecclesiastici e non soggette pertanto al governo degli Stati Generali boemi; i protestanti reclamarono tali terreni come "terre della corona" utilizzabili liberamente sulla base della Lettera di Maestà, un'interpretazione legale largamente disputata che il governo austriaco rifiutò.

Le tensioni esplosero il 23 maggio 1618, quando i due delegati imperiali cattolici Vilém Slavata e Jaroslav Bořita z Martinic e il segretario Philip Fabricius, inviati da Ferdinando al Castello di Praga per governare in sua assenza, furono catturati dai nobili protestanti che, aizzati dal Conte di Thurn, li scaraventarono fuori da una finestra del palazzo, dando il via alla rivolta boema e alla Guerra dei Trent'anni.

Dalla capitale Praga la ribellione contro l'opprimente potere cattolico asburgico si estese ben presto a tutti i territori della Corona di Boemia, infiammando la Slesia, l'Alta e Bassa Lusazia e la Moravia. Il primo atto di guerra vera e propria si ebbe tra il settembre e il novembre del 1618, quando la città di Plzeň, roccaforte dei cattolici boemi e ancora fedele agli Asburgo, fu assediata dalle truppe boemo-palatine del generale Ernst von Mansfeld. Questa prima vittoria protestante, tuttavia, fu subito minacciata dall'invasione della Boemia da parte delle truppe imperiali e della Lega cattolica, che penetrarono nel Paese da più parti.

Federico V del Palatinato.

In seguito alla morte dell'imperatore Mattia, il 20 marzo 1619, sebbene Ferdinando fosse già stato incoronato Re di Boemia, la nobiltà si rifiutò di riconoscerlo, facendolo, anzi, dichiarare dagli Stati Generali boemi, nell'agosto del medesimo anno, decaduto. La personalità che raccoglieva tra i boemi maggiori consensi per divenire loro nuovo Re era il principe elettore di Sassonia Giovanni Giorgio, preferito a Federico V, principe elettore del Palatinato, già proposto per tale carica nel 1612, in quanto una sua eventuale elezione (era figlio di Federico IV del Palatinato, fondatore dell'Unione Evangelica) avrebbe portato inevitabilmente ad un conflitto religioso all'interno del Sacro Romano Impero.[18][19] Ricevuto, tuttavia, il rifiuto dell'elettore di Sassonia, la Dieta boema, riunitasi il 26 agosto 1619, non poté far altro che eleggere quale nuovo Re Federico V, che fu incoronato ufficialmente il 4 novembre.

Il potere di Federico, tuttavia, rimase debole per tutto il suo regno: buona parte della nobiltà e del clero boemo lo avversavano; le finanze reali erano al collasso e impedivano a Federico di organizzare una buona difesa contro la Lega cattolica; inoltre, le azioni del predicatore di corte Abraham Scultetus, che voleva sfruttare la sua posizione per diffondere il calvinismo in Boemia nonostante le opposizioni dello stesso Federico, contribuirono a indebolire il sostegno al nuovo Re; la stessa lingua di Federico, che parlava tedesco e non conosceva il ceco, contribuì ad allontanarlo dall'apparato statale. La debolezza del nuovo sovrano fu evidente quando, nel dicembre 1619, Federico convocò a Norimberga un incontro tra i principi protestanti tedeschi a cui ben pochi parteciparono; lo stesso elettore di Sassonia, colui che era il favorito per sedere sul trono boemo, disertò e disapprovò le azioni di Federico.

Quella che era una ribellione locale, per via della debolezza sia di Ferdinando II sia di Federico V, si trasformò in guerra estesa ben oltre i confini boemi: nell'agosto 1619 anche il popolo ungherese, guidato dal Principe di Transilvania Gabriele Bethlen, e gran parte dell'Alta Austria si ribellarono agli Asburgo (tanto che il Conte di Thurn riuscì a condurre un esercito fino alle mura della stessa Vienna prima di essere sconfitto nella battaglia di Záblatí da Karel Bonaventura Buquoy), mentre le azioni di guerra si estendevano alla Germania occidentale. L'imperatore, dopo aver chiesto l'aiuto di suo nipote Filippo IV, re di Spagna, lanciò un ultimatum a Federico, nel quale gli imponeva di lasciare il trono boemo entro il 1º giugno 1620.

Nel marzo dello stesso anno, Federico chiese alla Dieta boema l'imposizione di nuove tasse per la difesa del Regno, ma ormai la situazione era disperata: il Duca di Savoia Carlo Emanuele I, in seguito alla battaglia di Záblatí, ritirò il segreto sostegno alla causa protestante, consistente in ingenti somme in denaro e truppe per la guarnigione di stanza nella Renania; in cambio della cessione della Lusazia, l'elettore di Sassonia si schierò con gli Asburgo; il suocero Giacomo I, re d'Inghilterra, negò il suo aiuto militare; la stessa Unione evangelica fondata dal padre di Federico rifiutò con il trattato di Ulma di appoggiare il Re di Boemia. I pochi aiuti arrivarono dalle Province Unite, che inviarono piccoli contingenti e promisero un modesto aiuto economico, e dal Principe di Transilvania.[20] La causa di Federico V, tuttavia, venne vista come analoga a quella di Elisabetta Stuart,[21] e ciò gli garantì un flusso di decine di migliaia di volontari a suo favore nel corso di tutta la guerra dei trent'anni.[22]

Massimiliano I, Duca di Baviera.

Un insperato aiuto sembrò giungere dal principe di Transilvania Gabriele Bethlen, che stava conducendo una vittoriosa campagna in Ungheria, e dal suo alleato ottomano Osman II.[23] Dopo il consueto scambio di ambasciatori (il boemo Heinrich Bitter si recò a Istanbul nel gennaio 1620, mentre nel luglio 1620 fu accolto a Praga un legato turco), gli Ottomani promisero di inviare a Federico una forza di 60 000 cavalieri e di invadere la Polonia,[24] alleata degli Asburgo,[25] con 400 000 uomini, in cambio del pagamento di un tributo annuale al sultano.[26] Nella battaglia di Cecora, combattuta tra settembre e ottobre del 1620, gli ottomani sconfissero i polacchi, ma non furono in grado di intervenire a favore della Boemia prima del novembre 1620.[27] In seguito, i polacchi sconfissero gli ottomani nella battaglia di Chocim, riportando i confini a quelli precedenti alla guerra.[28]

Ai primi di agosto del 1620, 25 000 uomini al comando di Ambrogio Spinola marciarono alla volta della Boemia. Durante la terza settimana di agosto, tuttavia, quest'armata cambiò i propri obiettivi e si diresse sul disarmato Elettorato Palatino (difeso solo da 2 000 soldati inglesi volontari), patria di Federico V, occupando Magonza. Successivamente, Spinola attraversò il Reno il 5 settembre 1620 e procedette alla presa di Bad Kreuznach il 10 settembre e Oppenheim il 14 settembre. Alle forze del generale genovese, si aggiunsero quelle di Massimiliano I, Duca di Baviera, al comando delle forze della Lega cattolica (che includeva tra i suoi ranghi Cartesio come osservatore), che, dopo aver catturato Linz e sedato la rivolta dell'Alta Austria, attraversò i confini della Boemia il 26 settembre 1620. Mentre le forze imperiali comandate da Johann Tserclaes, conte di Tilly, tenevano sotto controllo la Bassa Austria, l'invasione della Lusazia da parte di Giovanni Giorgio di Sassonia completava l'accerchiamento asburgico.

Dipinto contemporaneo che mostra la battaglia della Montagna Bianca (1620), dove le forze spagnole-imperiali, comandate da Johann Tserclaes, conte di Tilly riuscirono a cogliere una vittoria decisiva.

L'invasione della Boemia da parte degli Asburgo culminò l'8 novembre 1620 nella battaglia della Montagna Bianca, nei pressi di Praga. La definitiva vittoria imperiale costrinse Federico, chiamato spregiativamente il "Re d'Inverno", insieme alla moglie Elisabetta e a diversi luogotenenti dell'esercito, a trovare rifugio all'estero, dove cercò di conquistare il sostegno alla sua causa in Svezia, in Danimarca e nelle Province Unite. La Boemia venne annessa ai domini asburgici (resterà tale fino al 1918) e trasformata da monarchia elettiva in ereditaria; venne intrapresa una dura repressione contro i luterani e gli ussiti nel tentativo di restaurare il cattolicesimo. Federico V fu privato sia del titolo di elettore del Palatinato (concesso al suo lontano cugino, il duca Massimiliano I di Baviera) sia dei suoi possedimenti e fu bandito dal Sacro Romano Impero.

Soffocata la ribellione boema e chiuso il fronte orientale con la pace di Nikolsburg (31 dicembre 1621), in cui l'Imperatore cedeva tredici contee dell'Ungheria al principe di Transilvania, la fazione cattolico-asburgica si prodigò nell'estirpare la residua resistenza protestante: questo periodo della guerra, detto da alcuni storici "fase del Palatinato" (1621-1625), da considerarsi distinto dalla "fase boema", è caratterizzato da scontri di piccola scala (tra cui le battaglie di Mingolsheim, Wimpfen e Höchst) e assedi come quelli di Bad Kreuznach, Oppenheim, Bacharach (conclusi nel 1620), Trebon, Heidelberg e Mannheim (che caddero nel 1622) e di Frankenthal (fino al 1623[29]), al termine dei quali il Palatinato fu occupato dagli spagnoli, che cercavano vantaggi strategici in vista della ripresa della guerra degli ottant'anni contro gli olandesi.

Le restanti armate protestanti, guidate dal conte Ernst von Mansfeld e dal duca Cristiano di Brunswick, ripiegarono a servizio delle Province Unite. Dopo aver contribuito a togliere l'assedio a Bergen op Zoom nell'ottobre 1622 e a occupare la Frisia orientale, il duca di Brunswick intraprese una campagna in Bassa Sassonia per difendere i possedimenti familiari, suscitando la reazione del conte di Tilly, comandante delle truppe imperiali e spagnole. Vedendosi negato l'aiuto delle truppe di Mansfeld, rimasto in Olanda, Brunswick decise la ritirata ma il 6 agosto 1623 fu intercettato dall'esercito di Tilly: nella battaglia di Stadtlohn, Brunswick fu nettamente sconfitto, perdendo oltre i quattro quinti dei suoi 15 000 uomini. Dopo questa catastrofe, Federico V, in esilio a L'Aia e sotto la crescente pressione da parte di Giacomo I d'Inghilterra, pose fine al suo coinvolgimento nella guerra e fu costretto ad abbandonare ogni speranza di avviare ulteriori campagne. La ribellione protestante fu così definitivamente schiacciata.

Fase danese (1625-1629)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei trent'anni (fase danese).
Cristiano IV, re di Danimarca e duca di Holstein.

Il conflitto, che pareva concluso dopo la schiacciante vittoria imperiale di Stadtlohn, fu riaperto dall'intervento militare di Cristiano IV, re di Danimarca e duca di Holstein. Egli, che aveva già approfittato della caotica situazione tedesca nel 1621 per imporre la propria sovranità sulla città di Amburgo, forte della straordinaria opulenza economica del suo regno[30] (dovuta principalmente ai pedaggi sull'Øresund e ai risarcimenti di guerra della Svezia[31]), nel 1625 condusse un esercito formalmente in aiuto dei protestanti tedeschi,[32] temendo che il recente prevalere dei cattolici potesse insidiare la sua monarchia luterana e la successione dei suoi giovani figli. Intendeva inoltre espandere l'influenza danese verso le arterie commerciali costituite dai fiumi Elba e Weser e anticipare un intervento del re svedese, impegnato in Polonia. La motivazione religiosa non era quindi primaria, tanto che il suo intervento fu inviso a parte degli stessi protestanti, alle città anseatiche e agli Holstein-Gottorp, vassalli e al contempo rivali, nonché alla nobiltà danese. Il ''trait d'union'' con la fase precedente era il sostegno formale a Federico V del Palatinato.

A L'Aia si tennero colloqui per un'alleanza protestante. Vi partecipò l'emissario inglese Sir Robert Anstruther (Federico aveva sposato Elisabetta Stuart ed era quindi cognato di Carlo I d'Inghilterra). Cristiano ottenne l'aiuto militare inglese nella forma di un contingente di 13 700 scozzesi, sotto il comando del generale Robert Maxwell, I conte di Nithsdale,[33] e circa 6 000 soldati inglesi, guidati da Charles Morgan, per la difesa della Danimarca. Ottenne supporto dalle Province Unite, che stavano affrontando l'invasione dei loro territori da parte delle forze cattoliche, e dalla Francia. Guidata dal cardinale Richelieu, in nome della raison d'État, essa cominciò a supportare gli sforzi protestanti e a contrastare l'egemonia cattolica degli Asburgo. Entro giugno il sovrano danese avrebbe ammassato più di 20 000 uomini in Holstein.

Il suo interesse era principalmente rivolto alla Bassa Sassonia. I suoi emissari tentarono di farlo eleggere nel marzo 1625 alla carica vacante di Kreisobrist, il che gli avrebbe dato il controllo delle truppe mobilitate a difesa dei vescovadi. Tuttavia i sassoni, che si erano mantenuti neutrali nella fase precedente, lessero le sue intenzioni e gli preferirono il duca di Brunswick-Wolfenbüttel, ma Cristiano riuscì ad annullare l'elezione e a farsi eleggere in maggio. Cristiano senza aver formalmente ratificato l'alleanza protestante sentendosi abbastanza forte si mosse in giugno verso Nienburg sul Weser.

Il generale cattolico Albrecht von Wallenstein.

L'imperatore non fece attendere la sua risposta: arruolò nuove truppe e le assegnò al comandante Albrecht von Wallenstein, un nobile boemo arricchitosi grazie alle terre confiscate dei suoi concittadini,[34] che mise al servizio di Ferdinando II il suo esercito di 20 000 uomini in cambio del diritto di saccheggiare i territori conquistati. Contemporaneamente a Wallenstein, attestatosi nei pressi di Magdeburgo, si mosse anche il conte di Tilly, che con le truppe imperiali invase la Bassa Sassonia.

La situazione danese peggiorò rapidamente e Cristiano rimase isolato, venendo abbandonato anche da parte delle truppe sassoni. Quanto agli appoggi stranieri, la Francia era in preda ad una nuova guerra di religione contro gli ugonotti nel sud-ovest del paese, supportati dall'Inghilterra, mentre la Svezia era impegnata in uno scontro con la confederazione polacco-lituana. Né il Brandeburgo né la Sassonia erano interessate a partecipare al conflitto. Al mancato aiuto alleato si aggiunsero presto le sconfitte sul campo di battaglia: il 25 aprile 1626 l'esercito di Ernst von Mansfeld, che giungeva dalle Province Unite in supporto dei danesi, fu vinto dalle forze di Wallenstein nella battaglia del Ponte di Dessau (Mansfeld morì alcuni mesi dopo in Dalmazia, probabilmente di malattia.[35]), mentre lo stesso Cristiano IV fu costretto a ritirarsi nello Jutland a seguito della battaglia di Lutter (17 agosto 1626), vinta da Tilly.[36]

L'assedio di Stralsunda in una raffigurazione dell'epoca.

In seguito alla disfatta danese, gli eserciti imperiali ebbero facile gioco contro le resistenze del Meclemburgo, della Pomerania e del ducato di Holstein, arrivando ad occupare lo Jutland nel dicembre 1627. Tra il maggio e il luglio 1628, Wallenstein, nominato dall'imperatore "Ammiraglio del Mar Baltico", pose l'assedio a Stralsunda, l'unico porto belligerante con strutture sufficienti per costruire una grande flotta in grado di conquistare Copenaghen, difeso da truppe danesi e svedesi e dai volontari scozzesi del colonnello Alexander Leslie (che in seguito divenne governatore della città per conto degli svedesi[37]).

Divenne presto chiaro, tuttavia, che il costo del proseguimento della guerra sarebbe stato di gran lunga superiore agli eventuali utili derivanti dalla conquista del resto della Danimarca:[38] il comandante imperiale cercò, quindi, di negoziare con gli assediati, a cui propose termini molto favorevoli di resa, condizioni che furono tuttavia respinte dalle autorità cittadine, ormai al servizio degli svedesi. La notizia di un nuovo intervento di Cristiano IV che, sbarcato in Pomerania, stava avanzando nell'entroterra tedesco, spinse Wallenstein a togliere l'assedio a Stralsunda; nei pressi di Wolgast le forze imperiali ebbero facilmente la meglio su quelle danesi (12 agosto 1628). Né una né l'altra parte vedevano ora vantaggi nel proseguimento del conflitto: con il trattato di Lubecca, firmato tra il maggio e il giugno 1629, Cristiano IV mantenne il controllo della Danimarca a patto della rinuncia al suo sostegno alla causa dei protestanti tedeschi.

La guerra, che pareva nuovamente vinta dalla causa cattolica, riprese quando Ferdinando II, influenzato dagli esponenti della Lega Cattolica, emanò l'editto di Restituzione, in forza del quale dovevano essere riconsegnati alla Chiesa cattolica tutti i beni confiscati a seguito della Pace di Augusta del 1555 (tra cui due arcivescovati, sedici vescovati e centinaia di monasteri). Ciò provocò la reazione dei principi protestanti non ancora coinvolti nel conflitto e la discesa in campo della Svezia, che grazie alla testa di ponte di Stralsunda, si preparava all'invasione della Germania.

Fase italiana (1629-1631)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra di successione di Mantova e del Monferrato.
Carlo I di Gonzaga-Nevers, vincitore della cosiddetta fase italiana della guerra dei Trent'anni.

Avvenuta negli anni finali della fase danese e in quelli iniziali della fase svedese, la guerra di successione di Mantova e del Monferrato (detta anche "guerra del Monferrato") viene considerata da alcuni storici come una parte della guerra dei Trent'anni svoltasi non in area tedesca, bensì nella penisola italiana, già protagonista nel secolo precedente di una lunga serie di conflitti tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo V. Alla morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, nel 1627, si aprì la contesa dinastica: da un lato Ferrante II Gonzaga, sostenuto dagli spagnoli, da Ferdinando II e dal duca di Savoia Carlo Emanuele I (che si era accordato con il governatore di Milano per la spartizione del Monferrato), dall'altro Carlo I di Gonzaga-Nevers, signore de facto di Mantova dal gennaio 1628, appoggiato dal re francese Luigi XIII e dal cardinale Richelieu.

In seguito ad un'iniziale vittoria spagnola, con i Savoia che occupavano Trino, Alba e Moncalvo e Ambrogio Spinola che poneva l'assedio a Casale, la situazione si capovolse con la discesa in Italia dello stesso re di Francia, che sbaragliò le forze piemontesi e occupò gran parte del ducato sabaudo, per poi nuovamente arridere alle forze imperiali e spagnole, con l'arrivo nella penisola italica dell'esercito di Wallenstein. La peste dilagante tra le truppe imperiali, gli eventi bellici nel nord Europa e l'invasione svedese della Germania spinsero Ferdinando II a cercare un accordo con i francesi, dapprima con il trattato di Ratisbona (13 ottobre 1630) e infine con la Pace di Cherasco (6 aprile 1631), che riconosceva legittimo duca di Mantova il candidato francese.

La guerra del Monferrato e la grande peste che colpì la penisola tra il 1629 e il 1631 fanno da sfondo alle vicende di Renzo e Lucia ne I promessi sposi, la più nota opera di Alessandro Manzoni, che con notevole accuratezza e ricerca storiografica mostra la società italiana al tempo del dominio spagnolo e la rovina fatta di epidemie, carestie e saccheggi portata dagli eserciti secenteschi nei teatri di conflitto.

Fase svedese (1630-1635)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei trent'anni (fase svedese).
Gustavo II Adolfo, re di Svezia, sbarca in Pomerania (1630).

Se le trame di corte ordite dagli esponenti della Lega Cattolica avevano spinto Ferdinando II, nel 1630, a licenziare Wallenstein, accusato di ricercare l'appoggio di alcuni principi protestanti per acquisire maggiore influenza e indipendenza a scapito del potere asburgico, gli eventi bellici portarono l'imperatore alla pragmatica decisione d'ingaggiarlo nuovamente: il 6 luglio, infatti, 10 000 fanti e 3 000 cavalieri svedesi guidati dal re Gustavo II Adolfo avevano varcato i confini del Sacro Romano Impero[39][40] sbarcando a Peenemünde, sull'isola di Usedom, Pomerania.

Come il tentativo d'invasione, rivelatosi poi fallimentare, intrapreso dal re di Danimarca, l'impresa svedese fu fortemente sovvenzionata dal cardinale Richelieu (con il Trattato di Bärwalde) e dagli olandesi,[41] permettendo a Gustavo Adolfo ingenti spese belliche durante tutto il corso della guerra: se nel primo anno di intervento la Svezia dovette sborsare ben 2 368 022 Riksdaler per mantenere i suoi 42 000 uomini, due anni più tardi, a fronte di 149 000 effettivi, Gustavo spese solo un quinto di quella cifra, ossia 476 439 Riksdaler, con il restante importo versato dalle casse di Luigi XIII.

L'intervento svedese, giustificato dalla volontà di soccorrere i principi protestanti tedeschi nella lotta contro la fazione cattolica, aveva un duplice obiettivo: prevenire una possibile restaurazione del cattolicesimo nel regno di Svezia (il primo Stato europeo ad aderire alla riforma luterana nel 1527) e ottenere una maggiore influenza economica sugli stati tedeschi affacciati sul Mar Baltico.

La vittoria di Gustavo Adolfo nella battaglia di Breitenfeld (1631)

Liberatosi del fronte polacco-lituano su cui Gustavo Adolfo era da tempo impegnato e affidatolo ai russi dello zar Michele I (Guerra di Smolensk,[42] 1632-1634), le forze del sovrano svedese ebbero facile gioco nell'occupare dapprima Stettino e successivamente il Meclemburgo; al contempo, le forze cattoliche del conte di Tilly assediavano e prendevano il 20 maggio 1631 la città di Magdeburgo, unica alleata svedese in terra germanica, sottoponendola ad un violentissimo sacco che con i suoi 24 000 morti sarà ricordato come uno degli accadimenti più drammatici dell'intero conflitto.

Fu proprio l'eco dell'eccidio magdeburghese a convincere le protestanti Pomerania e Brandeburgo a unirsi alla causa di Gustavo Adolfo e a far vacillare nella sua ambigua posizione Giovanni Giorgio di Sassonia, convinto definitivamente ad aderire alla lega svedese quando le forze di Tilly, giudicando l'atteggiamento dell'elettore ostile, decise di sferrare un attacco preventivo alla Sassonia. Le forze cattoliche e protestanti si scontrarono il 17 settembre 1631 a nord di Lipsia nella battaglia di Breitenfeld, vero spartiacque della campagna svedese: i 26 000 uomini di Gustavo II (la maggior parte dei quali erano mercenari tedeschi[43]) e i 18 000 sassoni di Giovanni Giorgio I (che, tuttavia, nel corso dello scontro disertarono) conseguirono una schiacciante vittoria sui 30 000 uomini del conte di Tilly;[44][45] a seguito di tale vittoria non solo le forze protestanti poterono dilagare in terra tedesca ma si ritrovarono rinforzate militarmente dai 12 400 prigionieri di Breitenfeld, che passarono dalla parte svedese, e politicamente dai numerosi stati imperiali che, vista la disfatta cattolica, si schierarono al fianco del "Leone del Nord".

Lasciata la Sassonia, gli svedesi, forti pure dei rinforzi scozzesi (circa 30 000 uomini[46]), marciarono verso la Franconia e la Turingia, nelle valli del Reno e del Meno fino a Francoforte, che posero sotto assedio in novembre; trascorsi i mesi invernali nell'Elettorato di Magonza, alla ripresa degli scontri nel 1632 il re di Svezia entrò in Baviera, provocando la rottura del patto franco-bavarese segretamente stretto nel 1631 a Fontainebleau. Sconfitta nuovamente nella battaglia di Rain (15 aprile) la Lega Cattolica guidata dal conte di Tilly (che fu ferito mortalmente nello scontro) e dall'elettore di Baviera Massimiliano I, il 17 maggio le truppe protestanti entrarono a Monaco, costringendo alla fuga Massimiliano.

Il cancelliere Axel Oxenstierna, capo della fazione protestante dopo la morte di Gustavo II Adolfo.

La morte di Tilly spinse Ferdinando II a muovere un nuovo esercito, capeggiato da Wallenstein, verso la Boemia con l'obiettivo di interrompere la linea dei rifornimenti di Gustavo Adolfo, accampatosi a Norimberga dopo la liberazione di Praga, occupata dai sassoni di Giovanni Giorgio, da parte delle truppe cattoliche. Sul trinceramento svedese piombò subito Wallenstein, che in luglio pose sotto assedio il campo svedese: la scarsità degli approvvigionamenti e le pestilenze provocarono un notevole assottigliamento delle file protestanti e nemmeno le mosse di Gustavo II per spezzare l'accerchiamento riuscirono a liberare le sue forze dal giogo imperiale.

Ma Wallenstein, convinto di aver vinto le schiere svedesi e presa Lipsia in novembre, decise di porre fine alla campagna smobilitando il suo esercito, che iniziava a soffrire la fame: del passo falso del generale imperiale approfittò Gustavo Adolfo, che nella battaglia di Lützen (16 novembre 1632) riportò una sanguinosa vittoria a prezzo della vita. La speranza imperiale che con la morte del sovrano di Svezia le sue forze si disperdessero s'infranse contro le notevoli capacità del cancelliere Oxenstierna: assunta la reggenza in nome della regina Cristina, di soli sei anni, ricompattò il fronte protestante, indebolito da massicci ammutinamenti e defezioni, stringendo con Renania, Svevia e Franconia (grazie alla determinante mediazione della Francia) la Lega di Heilbronn, con l'intento di assicurarsi una volta terminata la guerra il controllo diretto delle terre imperiali conquistate; le mancate adesioni di Sassonia e Brandeburgo, tuttavia, pregiudicarono l'efficacia della lega e la confinarono nella Germania sud-occidentale, lontana dai veri interessi svedesi.

Analoghe difficoltà si riscontravano all'interno del fronte cattolico: la diffidenza nei confronti di Wallenstein, in parte giustificata dalle trattative non autorizzate da lui intavolate con i protestanti, in parte alimentata da gelosie e invidie di palazzo, portò nel 1633 Ferdinando II a revocargli il comando militare e a ordinare il suo arresto; all'oscuro dell'imperatore, invece, si mosse la congiura del generale irlandese Walter Butler e dei colonnelli scozzesi Walter Leslie e John Gordon, che nella notte del 25 febbraio uccise Wallenstein a tradimento per mano di Walter Devereux.

Il futuro imperatore Ferdinando III d'Asburgo.

Morto Wallenstein, il comando delle operazioni militari imperiali passò a Ferdinando d'Asburgo, re di Ungheria e Boemia e futuro imperatore, con questi che subito si adoperò per rafforzare l'armata asburgica ricongiungendola alle truppe spagnole allocate nell'Italia settentrionale, al comando di suo cognato il cardinale Ferdinando. Forte di circa 34 000 unità e 60 cannoni, l'esercito imperiale occupò facilmente Ratisbona e si scontrò vittoriosamente nella prima battaglia di Nördlingen (6 settembre 1634) con le forze svedesi e sassoni: la tattica delle truppe svedesi dimostratasi fino ad allora efficace e innovativa si infranse contro la secolare superiorità del tercio spagnolo, costringendo le forze protestanti (3/5 delle quali furono uccise o catturate a Nördlingen) a una rapida ritirata dalla Germania meridionale. Ogni resistenza al fronte ispano-imperiale cessò entro la primavera del 1635.

Le trattative tra schieramento protestante e parte imperiale furono già avviate nel novembre 1634 con i preliminari di Pirna e furono portate a termine con la pace di Praga (30 maggio 1635): con essa si stabiliva la revoca dell'Editto di Restituzione del 1629 per 40 anni e il ripristino dei termini della Pace di Augusta del 1555 (limitatamente ad alcuni territori protestanti), il divieto imposto ai principi tedeschi di formare alleanze interno o esterne all'impero, l'unificazione degli eserciti germanici nel complessivo "Esercito della maestà imperiale romana e del Sacro Romano impero" (sebbene Giovanni Giorgio I di Sassonia e Massimiliano I di Baviera nella pratica mantennero il comando diretto delle loro forze, solo nominalmente parte dell'esercito dell'imperatore), l'amnistia generale per gran parte degli avversari imperiali a eccezione di alcune personalità protestanti di rilievo, più una serie di concessioni territoriali e pecuniarie a Sassonia, Brandeburgo e Baviera (che ricevettero il titolo di elettore palatino).

Questo accordo fu aspramente criticato da entrambi i fronti: i protestanti lamentarono la mancata libertà religiosa concessa agli stati sotto il controllo asburgico, i cattolici la mancata restituzione dei beni ecclesiastici occupati dai protestanti alla Chiesa, gli svedesi il mancato riconoscimento del possesso della Pomerania (concessa al Brandeburgo) e lo scioglimento della lega di Heilbronn, i francesi il mancato ridimensionamento del potere asburgico in Europa. Furono poste, dunque, le premesse dell'ultima, lunga fase della guerra dei trent'anni.

Fase francese o franco-svedese (1635–1648)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra dei trent'anni (fase francese) e Guerra franco-spagnola.
Il cardinale de Richelieu, primo ministro di Luigi XIII di Francia e fautore dell'intervento francese.

L'ingerenza della cattolicissima Francia nel conflitto era di lunga durata: il cardinale de Richelieu, primo ministro di re Luigi XIII, appoggiando finanziariamente i principi protestanti, intendeva indebolire i potenti Asburgo, che controllavano la corona spagnola e quella imperiale e che possedevano direttamente molti territori nei Paesi Bassi e sul confine orientale francese. Con il trattato di Bärwalde del gennaio 1631, la Francia s'impegnava a sostenere l'intervento svedese di Gustavo Adolfo in terra tedesca con il versamento annuale di un milione di livre in cambio della promessa di mantenere militarmente occupati gli Asburgo in Germania e di non avviare trattative di pace con l'imperatore senza il consenso della Francia.

Ma dopo la disfatta svedese a Nördlingen del settembre 1634 e la pace di Praga del 1635, apparve chiara a Richelieu l'incapacità svedese di proseguire la guerra da soli: il pretesto per scendere direttamente in campo contro gli Asburgo fu fornito nel maggio 1635 dall'attacco spagnolo all'elettorato di Treviri, dal 1632 posto sotto la protezione della Francia, cui seguì la dichiarazione di guerra alla Spagna nello stesso mese e all'Impero nell'agosto 1636. Fin da subito le forze francesi poterono contare sul rinnovato esercito svedese sotto la guida di Johan Banér e sul nuovo esercito del Weser al comando di Alexander Leslie, che nella battaglia di Wittstock (4 ottobre 1636) riportarono un'insperata vittoria sulle forze imperiali, che vanificò il vantaggio da queste riportato nella battaglia di Nördlingen.[47] In accordo con le forze svedesi (trattati di Wismar del 1636 e di Amburgo del 1638), le truppe francesi aprirono l'offensiva anti-asburgica in Germania e nei Paesi Bassi[48] mentre le forze svedesi si attestavano nella Germania settentrionale.

La morte di Ferdinando II il 15 febbraio 1637 non fermò le operazioni militari, già affidate al figlio Ferdinando III, che gli successe nella carica imperiale nell'agosto di quell'anno: nonostante la sconfitta di Wittstock, le forze imperiali non fecero che guadagnare posizioni durante tutto il 1636 a scapito del fronte francese (che oltre alla Svezia e alle forze un tempo facenti parte della lega di Heilbronn, ora comprendeva anche le truppe di Bernardo di Sassonia-Weimar), con le forze del cardinale Ferdinando e del generale Johann von Werth, che devastarono Piccardia e Champagne e giunsero a 80 miglia da Parigi e con l'esercito di Carlo IV di Lorena che arrivò alle porte di Digione.

Il Conte-duca de Olivares.

Solo nel 1637 si ebbe la reazione francese con la vittoria di Bernardo di Sassonia-Weimar nella battaglia di Rheinfelden in Alsazia, vanificata, tuttavia, dalle difficoltà che gli svedesi incontravano nel nord della Germania. Né la battaglia di Vlotho dell'ottobre 1638, in cui le truppe imperiali sbaragliarono le forze svedesi, inglesi e palatine (provocando la definitiva uscita del Palatinato dal conflitto) né la morte di Bernardo di Sassonia-Weimar né la battaglia di Chemnitz dell'aprile 1639 né, infine, l'offensiva congiunta franco-svedese in Turingia, si rivelarono decisive per le sorti della guerra, che anzi entrò in una fase di stallo.

L'assedio della piazzaforte asburgica di Arras, protrattosi dal 16 giugno al 9 agosto 1640 (in cui si distinse lo scrittore Savinien Cyrano de Bergerac, le cui gesta in questa battaglia furono menzionate nel Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand) e la sua finale caduta in mani francesi[49] volsero, infine, gli eventi decisamente a favore di Luigi XIII e a scapito della Spagna: persa Arras, le truppe francesi ebbero facile gioco nell'invadere e occupare tutte le Contea delle Fiandre,[50] mentre, incoraggiati dalle disfatte asburgiche, venti di ribellione iniziavano a soffiare in maggio in Catalogna[51] e in dicembre in Portogallo. Il governo del conte-duca de Olivares, infatti, con la sua politica di inasprimento fiscale tutta a detrimento di queste due regioni, aveva provocato paralisi a Lisbona e odio e malcontento catalano nei confronti della corte madrilena. Il fermento di tali movimenti separatisti non sfuggì al cardinale Richelieu, che, volendo promuovere una "guerra di diversione" in territorio iberico al fine di costringere gli spagnoli a ritirarsi dal teatro tedesco,[52] fornì prontamente aiuto prima ai catalani e in seguito ai portoghesi.[53] Gli sforzi del primo ministro francese sortirono gli effetti desiderati: Filippo IV di Spagna, supportato dai propri consiglieri, fu a malincuore costretto a distogliere la sua attenzione dalla guerra nel nord Europa per affrontare i problemi nei suoi territori.[53]

La coalizione imperiale precipitò in una profonda crisi. Nel Mediterraneo e nell'Atlantico le flotte francesi e olandesi vinsero ripetutamente quelle ispaniche, mentre le forze francesi e svedesi riguadagnavano l'iniziativa nella Germania meridionale: nella seconda battaglia di Breitenfeld del 2 novembre 1642, combattuta al di fuori di Lipsia, il feldmaresciallo svedese Lennart Torstenson sconfisse l'esercito imperiale guidato da Leopoldo Guglielmo d'Austria e dal principe generale Ottavio Piccolomini, causando la perdita di 20 000 uomini, la cattura di 5 000 prigionieri e di 46 cannoni al costo di 4 000 tra uccisi o feriti fra le schiere franco-svedesi. La vittoria a Breitenfeld permise l'occupazione svedese della Sassonia e obbligò Ferdinando III a considerare il ruolo della Svezia, e non solo la Francia, in qualsiasi negoziato di pace futuro.

Il cardinale e primo ministro di Francia Giulio Mazzarino.

Nemmeno la morte del cardinale Richelieu il 4 dicembre 1642 mutò gli equilibri bellici. Il cardinale Giulio Mazzarino, subentrato a Richelieu, continuò l'opera del predecessore: aiuti economici e militari continuarono a fluire verso gli insorti catalani e i ribelli lusitani, i quali avevano deciso di recidere il legame dinastico che dal regno di Filippo II li univa alla corona spagnola. A fronte di una situazione così critica, Olivares cercò invano la pace con la Francia e le Province Unite: questo nuovo insuccesso, sommato alla disfatta subita dagli spagnoli a Rocroi il 19 maggio 1643 per mano del generale francese Luigi II di Borbone-Condé,[53][54] segnò la fine della carriera del Conte-Duca, che venne allontanato nel 1643 da Filippo IV. Il 14 maggio 1643, intanto, moriva Luigi XIII, lasciando soli al governo il cardinale Mazzarino e Anna d'Austria, reggenti in nome di Luigi XIV, di soli cinque anni.

Il successo di Rocroi venne vanificato il 24 novembre 1643 nella battaglia di Tuttlingen, quando le truppe francesi, impegnate in una campagna sul Reno, vennero sorprese e vinte dalle schiere imperiali, bavaresi e lorenesi di Franz von Mercy, costringendo alla ritirata in Alsazia degli invasori. Della debolezza francese e della lontananza degli eserciti svedesi, impegnati in Danimarca nella cosiddetta guerra di Torstenson, approfittò Massimiliano I di Baviera, che per tutta la seconda metà del 1644 affrontò con alterne fortune nella regione renana le truppe di Luigi di Borbone-Condé, le Grand Condé. Anche la successiva campagna che portò i francesi, avendo vinto e ucciso von Mercy nella seconda battaglia di Nördlingen il 3 agosto 1645, temporaneamente fin sulle sponde del Danubio si rivelò effimera quando, a causa delle ingenti perdite, i francesi furono costretti ad attestarsi nuovamente sul Reno.

Più successo ebbe l'avanzata svedese: la vittoria riportata a Jankov (6 marzo 1645), a sud-est di Praga, consentì a Torstenson di giungere a 30 miglia dalla stessa Vienna (costringendo alla fuga a Graz dell'imperatore), capitale asburgica che tuttavia non fu assediata, preferendo il generale svedese consolidare le proprie posizioni in Boemia, Moravia e nell'elettorato di Sassonia (uscito dal conflitto il 14 aprile 1646 con la pace di Eilenberg). La successiva campagna congiunta degli eserciti svedesi e francesi al comando di Carl Gustaf Wrangel e del visconte di Turenne in Baviera e nel Württemberg spinse Massimiliano I prima alla fuga e poi ad abbandonare l'alleanza asburgico-imperiale con la tregua di Ulma del 14 marzo 1647. Ma appena si allentò la presenza francese, concentrata nelle Province Unite, e gli svedesi si spinsero ancora più a oriente, l'elettore di Baviera sconfessò gli accordi di Ulma siglando nuovamente, con il trattato di Pilsen, l'alleanza con l'imperatore.

Nel marzo 1648 si avviavano quelle che si sarebbero rivelate le ultime campagne della guerra: i restanti eserciti imperiali furono sconfitti nei pressi di Augusta nella battaglia di Zusmarshausen (17 maggio) e a settentrione nella battaglia di Lens (20 agosto). L'avanzata anti-asburgica in Baviera e in Boemia venne arrestata quando si seppe della firma della pace di Vestfalia, che poneva fine a un conflitto durato tre decenni e che aveva visto la partecipazione diretta o indiretta di tutte le potenze del Vecchio Continente.

Fine del conflitto: la pace di Vestfalia (1648)

Lo stesso argomento in dettaglio: Pace di Vestfalia.
La firma del trattato di Münster.

Le trattative di pace, intavolate già nel 1643, si rivelarono molto complesse e laboriose per via della molteplicità degli interessi politici, economici e religiosi in gioco ed ebbero un risultato finale solo nel 1648, quando a Osnabrück il 15 maggio e a Münster il 24 ottobre furono firmati dalle 109 delegazioni coinvolte nelle negoziazioni i trattati gemelli radunati sotto il nome collettivo di pace di Vestfalia. Per via dei dissidi confessionali, si stabilì di svolgere trattative separate tra le parti in causa: i cattolici, con mediatore il nunzio pontificio Fabio Chigi (futuro papa Alessandro VII), si radunarono a Münster, siglando la fine delle ostilità tra Francia e Asburgo e tra Spagna e Province Unite (potenze queste ultime che, con diverse intensità, si combattevano da circa ottant'anni); i protestanti, sotto la tutela di Alvise Contarini, firmarono a Osnabrück la pace tra Asburgo e Svezia.

Copia del trattato di Osnabrück.

Determinante nella fine della guerra fu la volontà del cardinale Mazzarino: questi, infatti, dovendo affrontare internamente la Fronda, avviata dal Parlamento di Parigi il 10 luglio 1648 con la dichiarazione dei 27 articoli, che di fatto limitavano le prerogative del sovrano e trasformavano la Francia in una monarchia parlamentare, preferì chiudere un conflitto che aveva visto i Borbone trionfare sugli Asburgo, sebbene non definitivamente. La Spagna asburgica, infatti, non volendo riconoscere l'egemonia francese che si stava profilando in Europa, continuò a lottare fino al totale esaurimento delle proprie forze, sancito dal trattato dei Pirenei (7 novembre 1659).[55]

Ulteriori negoziati furono tenuti a Norimberga per risolvere la spinosa questione della smobilitazione e del pagamento delle truppe operanti in Germania; tali discussioni continuarono fino al 1651, e le ultime guarnigioni furono ritirate solamente nel 1654.[56][57][58]

Aspetti tattici e strategici della guerra

La guerra dei trent'anni ebbe grande importanza anche nell'introduzione di significative novità in campo militare. Da questo punto di vista può ritenersi della massima importanza il ruolo dell'intervento svedese, in quanto l'esercito di Gustavo Adolfo rappresentava sicuramente, all'epoca, la più moderna organizzazione bellica presente in Europa.

Innovazioni tattiche svedesi

La guerra iniziò in un periodo in cui, nella maggior parte dell'Europa, erano in uso le tattiche tradizionali di tipo spagnolo, poco diverse da quelle adottate nel XVI secolo; fulcro di tali dottrine era la formazione detta tercio, un consistente gruppo di picchieri disposto in un denso quadrato e circondato da moschettieri di supporto. Nel tercio, il ruolo più importante era affidato ai picchieri, che dovevano svolgere un ruolo sia difensivo che offensivo, avanzando a picche spianate, mentre i moschettieri avevano essenzialmente un compito subordinato, anche a causa della bassa cadenza di tiro.

Picchiere - Nell'esercito svedese i picchieri persero il loro ruolo predominante

In questa situazione si distingueva nettamente, per le tattiche adottate, l'esercito svedese. Le riforme militari attuate da Gustavo Adolfo, ispirate dai provvedimenti attuati dagli olandesi nella loro decennale lotta contro la Spagna, riguardarono sia le tre armi singolarmente (fanteria, cavalleria, artiglieria), sia il coordinamento dei vari componenti l'armata.

  • La fanteria svedese vedeva la predominanza dei moschettieri sui picchieri, in un rapporto di circa 2:1, e l'adozione di una formazione lineare su più file (in genere sei), che consentiva di massimizzare la potenza di fuoco dei moschettieri; questi ultimi erano addestrati a ricaricare il più rapidamente possibile e a sparare per salve controllate per fila, mentre le altre file ricaricavano.
  • La cavalleria, che per il predominio dei picchieri aveva perso importanza sul campo di battaglia nei precedenti decenni, abbandonava la poco efficace tattica del caracollo e passava a una tattica più incisiva di carica all'arma bianca (in special modo la sciabola).
  • L'artiglieria, finora relativamente secondaria, veniva notevolmente sviluppata, con un sostanziale alleggerimento dei pezzi, la cui maneggevolezza ne permetteva ora lo spostamento sul campo, prima quasi impossibile; inoltre vennero introdotti "cannoni reggimentali" per appoggiare le formazioni di fanteria e venne data molta importanza alla rapidità nel caricamento.

Tali innovazioni si rivelarono decisive per l'esito del conflitto e vennero via via adottate dai vari contendenti. Nelle battaglie che videro scontrarsi eserciti che adottavano le due diverse dottrine (come a Breitenfeld o a Rocroi), prevalse sempre la tattica svedese.

Logistica

La logistica degli eserciti impegnati nel conflitto fu sempre molto problematica. Non esistevano, all'epoca, treni di rifornimento come quelli che sarebbero stati impiegati nel XVIII secolo. Se questo rendeva possibile per gli eserciti effettuare spostamenti più rapidi, in quanto non esisteva la necessità di trainare lenti carriaggi, il materiale per il sostentamento delle truppe era spesso ridotto ai minimi termini. La tipica politica adottata nella guerra fu l'utilizzo sistematico delle risorse del territorio: questa spoliazione di intere regioni ebbe conseguenze molto gravi sulle popolazioni ed era inserita in un sistema più generale, per cui i comandanti degli eserciti traevano lauti profitti dai saccheggi sistematici.

Emblematico di questa abitudine fu il comandante imperiale Albrecht von Wallenstein: al comando di un esercito da lui stesso arruolato, egli trasse enormi profitti che gli consentirono di equipaggiare il suo esercito in maniera relativamente uniforme e di aumentare di molto il numero di truppe al suo comando, fino al suo assassinio. Il problema dei rifornimenti incise spesso sulle operazioni militari, costringendo gli eserciti a spostarsi a causa dell'esaurimento delle risorse locali; inoltre, si assistette a casi in cui intere armate furono decimate a causa del forzato passaggio o stazionamento in zone già esaurite.

Con il proseguire della guerra il problema logistico si fece sempre più stringente, a causa dell'aumento del numero di uomini in campo. Molto problematico si rivelò il pagamento delle truppe, che ricevevano il salario con ampio ritardo, fatto che provocò numerosi ammutinamenti, soprattutto da parte dell'esercito svedese. Una conseguenza secondaria della necessità di pagare ed equipaggiare un grande numero di truppe fu l'avvento della standardizzazione nelle uniformi e nell'armamento, per aumentare le velocità di produzione e diminuire i costi.

Le conseguenze del conflitto

Mappa della Guerra dei Trent'anni.

La guerra dei trent'anni fu probabilmente il più grave evento che coinvolse l'Europa centrale prima delle Guerre Mondiali ed ebbe conseguenze molto rilevanti sia da un punto di vista sociale e demografico, sia da un punto di vista più strettamente politico e culturale, come apparve chiaramente in quella che fu definita la Crisi del Seicento. Secondo Nicolao Merker, la guerra dei trent'anni fu "in assoluto la maggiore catastrofe mai abbattutasi" sulla Germania.[8]

Perdite demografiche ed economiche

La quantificazione dei danni riportati dalla popolazione tedesca durante il conflitto è stata per anni argomento di accese dispute fra gli storici. Geoffrey Parker ritiene probabile che, considerando l'intera Germania, il calo demografico si sia attestato tra il 15 e il 20 per cento della popolazione, che nell'Impero passò dai circa 20 milioni del 1618 a un totale di circa 16-17 milioni nel 1650.[59] Le valutazioni di altri autori sono molto più elevate; secondo Gustav Freytag le perdite umane furono di circa 12 milioni di persone con una popolazione che si contrasse da 18 milioni a circa 6 milioni; Johannes Scherr calcola che il decremento demografico fu ancora maggiore, da 16-17 milioni a soli 4 milioni.[4]

Soldati saccheggiatori. Vranx, 1647, Deutsches Historisches Museum di Berlino.

I villaggi furono prede particolarmente vulnerabili per gli eserciti. Tra quelli che riuscirono a sopravvivere, come il piccolo villaggio di Drais nei pressi di Magonza, dovettero impiegare quasi un secolo per recuperare la situazione prebellica. Si stima che le sole armate svedesi siano state responsabili della distruzione di circa 2 000 castelli, 18 000 villaggi e 1 500 città in Germania, un terzo di tutte le città tedesche.[60]

Da zona a zona si registrano tuttavia notevoli differenze, che rispecchiano la frequenza degli scontri e del passaggio degli eserciti in ogni regione; le più colpite furono la Pomerania, il Meclemburgo, il Brandeburgo e il Württemberg, mentre le regioni nord-occidentali furono in gran parte risparmiate.[59][61][62] Il Württemberg perse i tre quarti della sua popolazione durante la guerra.[63] Nel territorio di Brandeburgo, le perdite furono pari a circa la metà della popolazione, mentre in alcune zone si stima che i due terzi degli abitanti siano morti.[64] Complessivamente, negli stati tedeschi, la popolazione maschile si ridusse di quasi la metà.[65] Nelle terre ceche, la popolazione diminuì di un terzo a causa delle battaglie, delle malattie, della malnutrizione e come conseguenza dell'espulsione dei protestanti residenti.[66][67]

La causa principale del calo demografico non è tanto legata a eventi bellici, che contribuirono in maniera relativamente bassa, ma alla mancanza di vettovaglie e al ripetuto diffondersi di epidemie;[68] il passaggio delle truppe, in gran parte eserciti di mercenari che traevano sostentamento dal saccheggio sistematico dei luoghi che attraversavano, generava una carenza di viveri che indeboliva gli abitanti, rendendoli facile preda di malattie infettive la cui diffusione era favorita dai flussi di profughi e dal concentramento degli sfollati nelle città. Questo ricorrere di epidemie e calo demografico, che trova riscontro in vari documenti dell'epoca, come registri parrocchiali e delle tasse, sembra comunque fosse già, almeno in parte, cominciato prima della guerra, che quindi forse non fece altro che accelerare un processo già innescato.[69]

Un contadino chiede pietà di fronte a una fattoria in fiamme.

Tra il 1618 e il 1648, pestilenze di diversi tipi infuriarono, in tutta la Germania e nei paesi limitrofi, tra combattenti e popolazione civile. Le caratteristiche della guerra furono determinanti per favorire la diffusione delle malattie, tra queste: i frequenti movimenti di truppe, l'afflusso di soldati provenienti da paesi stranieri e le mutevoli posizioni dei fronti della battaglia. Inoltre, lo spostamento delle popolazioni civili e il sovraffollamento nelle città dovuto ai rifugiati comportò frequenti episodi di malnutrizione e di trasmissione di malattie. Sulle cronache locali, quali i registri parrocchiali e i documenti fiscali, si possono trovare le informazioni su numerose epidemie, tuttavia questi dati potrebbero essere incompleti o, a volte, sovradimensionati. I documenti mostrano che il verificarsi di malattie epidemiche non fu un'esclusiva del tempo di guerra, ma esse si verificarono in molte parti della Germania per diversi decenni prima del 1618.[70]

Quando l'esercito imperiale e quello danese si scontrarono in Sassonia e Turingia, tra il 1625 e il 1626, le malattie infettive aumentarono nelle comunità locali. I documenti parlano ripetutamente di "malattia della testa", "malattia ungherese" e di una "malattia maculata", identificata successivamente come la tubercolosi. Dopo la guerra di Mantova, combattuta tra la Francia e gli Asburgo in Italia, la parte settentrionale della penisola italica fu soggetta ad un'epidemia di peste bubbonica (vedi peste del 1630). Durante l'infruttuoso assedio di Norimberga del 1632, i civili e i soldati di entrambi gli schieramenti soffrirono di tubercolosi e scorbuto. Nel 1634, Dresda, Monaco di Baviera e altre piccole comunità tedesche, come Oberammergau, registrarono un gran numero di vittime dovute alla peste. Negli ultimi decenni della guerra, sia la tubercolosi che la dissenteria furono condizioni endemiche in Germania.

Dal punto di vista economico la guerra causò una generale contrazione economica in tutto l'Impero, cui contribuirono i saccheggi, i furti e le distruzioni indiscriminate, ma anche gli altissimi costi per il mantenimento degli eserciti mercenari. Molte città e stati tedeschi s'indebitarono per sostenere lo sforzo bellico e dopo la guerra il recupero fu ostacolato dal fatto che l'Impero fu coinvolto in una serie di nuove guerre con la Francia e l'Impero ottomano che, pur non coinvolgendo direttamente la Germania, richiesero nuovi sforzi economici. Come detto, la guerra fu causa di gravi danni all'economia dell'Europa centrale, tuttavia si ritiene che potrebbe aver semplicemente aggravato una situazione che già si stava instaurando precedentemente.[71][72] Inoltre, alcuni storici sostengono che il costo umano della guerra possa avere migliorato il tenore di vita dei sopravvissuti.[73] Secondo Ulrich Pfister, nel 1500 la Germania fu uno dei paesi più ricchi d'Europa, ma nel corso del 1600 questo primato andò di gran lunga a deteriorarsi. Durante il periodo tra il 1600 e il 1660, il paese tornò economicamente a crescere, in parte grazie allo shock demografico della guerra dei Trent'anni.

Conseguenze politiche

Europa centrale al termine della Guerra dei Trent'anni, si può notare la frammentazione provocata dal conflitto.

La maggiore conseguenza, dal punto di vista politico fu la conferma della frammentazione della Germania, che ora veniva a essere formata da stati di fatto indipendenti. Tale situazione durò fino al 1871, quando la Germania fu riunificata dalla Prussia in seguito a una vittoriosa guerra contro la Francia. La Spagna, che continuò ancora a combattere contro la Francia dopo la firma della pace, evidenziò chiaramente i segni dell'inarrestabile decadenza già iniziata negli ultimi decenni del secolo XVI.

Sconfitta sul fronte pirenaico e su quello dei Paesi Bassi, tormentata internamente dalle rivolte della Catalogna e del Portogallo, si vide costretta a riconoscere in un primo momento l'indipendenza dei Paesi Bassi (a quel tempo denominati Province Unite, ma rimanevano i Paesi Bassi spagnoli, cioè l'attuale Belgio insieme a poco altro) e in seguito l'indipendenza del Portogallo, che venne messo sotto protezione dell'Inghilterra, ponendo così fine guerra degli Ottant'anni.

La Francia uscì dalla guerra rafforzata: grazie al declino spagnolo e alla frammentazione del Sacro Romano Impero, divenne una potenza di primo rango, uscendo trionfalmente da un periodo di eclissi che durava ormai da molti decenni. In seguito i Borbone di Francia sfidarono la supremazia della Spagna degli Asburgo nella guerra franco-spagnola (1635-1659); guadagnando l'ascesa definitiva come prima potenza continentale nella guerra di devoluzione (1667-1668) e nella guerra franco-olandese (1672-1678), sotto la guida di Luigi XIV.

Per l'Austria e la Baviera il risultato della guerra fu ambiguo. La Baviera fu sconfitta, devastata e occupata, ma conquistò alcuni territori con la pace di Westfalia. L'Austria fallì completamente nel riaffermare la sua autorità nell'impero, ma soppresse con successo il protestantesimo nei propri domini. Rispetto alla Germania, la maggior parte del territorio dell'Austria non subì significative devastazioni, e il suo esercito uscì dalla guerra più forte di prima, a differenza di quelli della maggior parte degli altri stati dell'Impero.[74] Ciò, insieme alla sagace diplomazia di Ferdinando III, permise all'Austria di riguadagnare una certa autorità sugli altri stati tedeschi, rendendola in grado di affrontare le crescenti minacce dell'impero ottomano e della Francia.

Riduzione della popolazione del Sacro Romano Impero in percentuale.

Dal 1643-1645, durante gli ultimi anni della Guerra dei Trent'anni, la Svezia (alleata con le Sette Provincie Unite) e la Danimarca (alleata con il Sacro Romano Impero) si scontrarono nella guerra di Torstenson. Il risultato di quel conflitto e la conclusione della pace di Westfalia contribuirono all'affermazione della Svezia come importante forza in Europa.

Gli accordi presi nella pace di Westfalia vengono ancora oggi considerati come uno dei cardini della concezione del moderno stato nazionale sovrano. Oltre a stabilire confini territoriali fissi per molti dei paesi coinvolti nel conflitto (così come per quelli più recenti, creati in seguito) la pace di Westfalia mutò il rapporto dei sudditi ai loro governanti. In precedenza, molte persone erano costrette a sopportare sovrapposizioni di potere, talvolta in conflitto tra le alleanze politiche e religiose. A seguito dei trattati di pace, gli abitanti di un determinato stato furono soggetti prima di tutto alle leggi e alle disposizioni emanate dai rispettivi governi e non alle pretese di qualsiasi altro ente, sia esso religioso o laico.

Da un punto di vista più generale, la guerra segnò la fine dei conflitti religiosi nell'Europa occidentale che accompagnarono la riforma protestante fin da più di un secolo prima: dopo il 1648, nessuna grande guerra europea fu più giustificata da motivazioni confessionali. Vi furono altri conflitti religiosi negli anni a seguire, ma senza che sfociassero in guerre.[75] Inoltre, le depravazioni e la distruzione causate dai soldati mercenari comportarono una tale repulsione, che fece terminare l'era dei Lanzichenecchi e inaugurò quella degli eserciti nazionali, caratterizzati da una maggior disciplina.

Caccia alle streghe (1626-1631)

Lo stesso argomento in dettaglio: Caccia alle streghe.
Un'incisione del 1627 della Malefizhaus di Bamberga, dove si tenevano gli interrogatori delle sospette streghe.

Tra i vari grandi traumi sociali che accompagnarono il conflitto, uno dei più importanti fu il dilagare delle persecuzioni per stregoneria. Questa violenta ondata di caccia alle streghe esordì nei territori della Franconia durante il periodo relativo all'intervento danese. Il disagio e le preoccupazioni che il conflitto produsse tra la popolazione generale, permise all'isteria collettiva di diffondersi rapidamente in altre parti della Germania. Gli abitanti delle zone che non furono devastate solo dal conflitto in sé, ma anche dai numerosi cattivi raccolti, dalle carestie e dalle epidemie, si affrettarono ad attribuire queste calamità a cause soprannaturali. In questo contesto fiorirono violente e volatili accuse di stregoneria contro i propri concittadini.[76] Il numero di processi e di esecuzioni registrati in questi anni fece segnare il picco del fenomeno della caccia alle streghe.[77]

Le persecuzioni iniziarono nel Vescovado di Würzburg, allora sotto la guida del principe vescovo Filippo Adolf von Ehrenberg. Ardente devoto della Controriforma, Ehrenberg fu ansioso di consolidare l'autorità politica cattolica nei territori sotto la sua amministrazione.[78] A partire dal 1626, egli istruì numerosi processi di massa per stregoneria, in cui tutti gli strati della società (tra cui la nobiltà e clero) si trovarono vittime in una serie incessante di persecuzioni. Nel 1630, 219 uomini, donne e bambini furono bruciati sul rogo, nella sola città di Würzburg, mentre si stima che 900 persone siano state messe a morte nelle zone rurali della provincia.[77]

In concomitanza con gli eventi di Würzburg, il principe vescovo Johann von Dornheim intraprese una serie di processi simili su larga scala nel territorio di Bamberga. Fu costruito un malefizhaus ("casa delle streghe") appositamente progettato con annessa una camera di tortura, le cui pareti erano decorate con versetti della Bibbia, in cui veniva interrogato l'imputato. I processi alle streghe di Bamberg si trascinarono per cinque anni e costarono tra le 300 e le 600 vite, tra le quali quella di Dorothea Flock e del Bürgermeister (sindaco) di lungo corso Johannes Junius.[79] Nel frattempo, nel 1629 in Alta Baviera, 274 sospette streghe furono messe a morte nel Vescovado di Eichstätt, mentre altre 50 morirono nell'adiacente Ducato del Palatinato-Neuburg in quello stesso anno.[80]

Altrove, le persecuzioni arrivarono sulla scia dei primi successi militari imperiali. La caccia alle streghe si espanse nel Baden dopo la sua riconquista da parte di Tilly, mentre la sconfitta del protestantesimo nel Palatinato aprì la strada per la diffusione in Renania.[77] Gli elettorati di Magonza e di Treviri furono teatro di roghi di massa di sospette streghe in questo periodo. Nell'Elettorato di Colonia, il principe-arcivescovo, Ferdinando di Baviera, presiedette una serie particolarmente abietta di processi per stregoneria, tra i quali quello della controversa accusa a Katharina Henot, bruciata sul rogo nel 1627.[77]

La caccia alle streghe raggiunse il suo picco intorno al periodo dell'Editto di Restituzione, emanato nel 1629, e con l'ingresso nella Svezia l'anno successivo gran parte dell'isteria popolare andò scemando. Tuttavia, a Würzburg, le persecuzioni sarebbero continuate fino alla morte di Ehrenberg, avvenuta nel luglio del 1631.[77] Gli eccessi di questo periodo ispirarono il poeta e gesuita Friedrich Spee (egli stesso un ex "confessore di streghe") autore di una sagace condanna legale e morale dei processi alle streghe, il Cautio Criminalis. Questo influente lavoro fu in seguito accreditato per aver posto fine alla pratica del rogo delle streghe in alcune zone della Germania e, gradualmente, in tutta l'Europa.[81]

Cronologia degli stati coinvolti (grafico)

Direttamente contro l'Imperatore
Indirettamente contro l'Imperatore
Direttamente per l'Imperatore
Indirettamente per l'Imperatore
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Guerra del vietnam

La guerra del Vietnam (in inglese Vietnam War, in vietnamita Kháng chiến chống Mỹ, "Guerra di resistenza contro gli Stati Uniti"[14][15] o Chiến Tranh Chống Mỹ Cứu Nước, lett. "guerra contro gli statunitensi per salvare la nazione"[16]) fu un conflitto armato combattuto in Vietnam (all'epoca diviso tra il Vietnam del Nord sotto influenza sino-sovietica, e il Vietnam del Sud, alleato degli Stati Uniti e altre forze occidentali) tra il 1º novembre 1955 e il 30 aprile 1975 e che si concluse con la caduta del governo del Vietnam del Sud e la riunificazione politica di tutto il territorio sotto la dirigenza di Hanoi[17].

Il conflitto si svolse prevalentemente nel territorio del Vietnam del Sud tra le forze insurrezionali filocomuniste e quelle governative del Paese, sorto dopo la conferenza di Ginevra del 1954 e l'indipendenza dalla Francia. L'escalation del conflitto vide il successivo diretto coinvolgimento degli Stati Uniti, che a partire dal 1965 inviarono contingenti sempre più ampi di armi e militari in sostegno del Vietnam del Sud fino ad arrivare a un picco di circa 550000 effettivi nel 1969[18]. A dispetto di tale dispiegamento, il Sud e i suoi alleati non riuscirono a conseguire la vittoria politico-militare, anche per via del più rapido sostegno garantito via terra al Nord da Cina e URSS; al contrario, gli Stati Uniti subirono pesanti perdite, finendo per disimpegnarsi dal conflitto a partire dal 1973. In appoggio alle forze statunitensi parteciparono anche contingenti inviati da Corea del Sud, Thailandia, Australia, Nuova Zelanda e Filippine. Sull'altro versante, intervenne direttamente in aiuto delle forze filocomuniste dell'FLN (definite Viet Cong dalle autorità statunitensi e sudvietnamite) l'esercito regolare del Vietnam del Nord, che infiltrò, a partire dal 1964, truppe sempre più numerose nel territorio del Vietnam del Sud, impegnandosi in duri combattimenti contro le forze statunitensi nel corso di offensive culminate nella campagna di Ho Chi Minh nel 1975.

Essa non fu un conflitto formalmente dichiarato tra potenze sovrane: poté essere descritta come un'azione di livello minore o di differente natura, continuando la tendenza seguita dalla fine del secondo conflitto mondiale di proiettare il termine "guerra" in un nuovo contesto, come per la guerra di Corea, che venne definita come un'"azione di polizia" sotto la supervisione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.[19] La guerra del Vietnam non interessò soltanto il territorio del Paese asiatico, ma coinvolse progressivamente il Laos (ufficialmente neutrale, ma in realtà oggetto di operazioni belliche segrete statunitensi e di infiltrazioni continue di truppe nordvietnamite) e la Cambogia, interessata massicciamente da attacchi aerei e terrestri americani (1969-1970) e infine invasa dalle forze nordvietnamite in appoggio alla guerriglia degli Khmer rossi. Anche lo stesso Vietnam del Nord venne ripetutamente colpito da pesanti e continui bombardamenti degli aerei statunitensi (dal 1964 al 1968 ed ancora nel 1972), sferrati per indebolire le capacità militari nordvietnamite e per frantumare la volontà politica del governo di Hanoi di continuare la lotta insurrezionale al sud. La guerra ebbe fine il 30 aprile 1975, con la caduta di Saigon, in cui gli Stati Uniti subirono la prima vera sconfitta politico-militare della propria storia, e dovettero accettare il totale fallimento dei loro obiettivi politici e diplomatici.

Il contesto storico

La guerra d'Indocina e la conferenza di Ginevra

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'Indocina, Indocina francese e Battaglia di Dien Bien Phu.

Il tentativo della Francia di riprendere possesso dei vecchi territori coloniali dopo l'occupazione giapponese dell'Indocina durante la seconda guerra mondiale aveva provocato la dura resistenza del movimento nazionalista Viet Minh, strettamente legato alle potenze cinese e sovietica e guidato da un capo notevole: Ho Chi Minh.[20]. La guerra fu combattuta ostinatamente dalla Francia e si concluse con una sconfitta di quest'ultima, malgrado il notevole impegno militare e il crescente supporto logistico e finanziario concesso dagli Stati Uniti d'America[21][22] secondo la teoria politica della dottrina Truman, volta al "contenimento" della «infezione comunista» ovunque nel mondo, anche quando mascherata da movimento indipendentista e nazionalista[23]; la battaglia di Ðiện Biên Phủ, combattuta fra il 13 marzo e il 7 maggio 1954, sancì la sconfitta definitiva delle forze francesi, facendo guadagnare enorme prestigio al generale Võ Nguyên Giáp e al movimento Việt Minh.[24]

Ritratto del leader vietnamita Ho Chi Minh
Il comandante in capo Viet Minh, Võ Nguyên Giáp
 

Al termine del conflitto Stati Uniti, Cina, Unione Sovietica e Regno Unito discussero della questione indocinese alla conferenza di pace di Ginevra[25], che si concluse il 21 luglio 1954 in modo insoddisfacente per il movimento Viet Minh (anche a causa della tendenza al compromesso da parte di Cina e Unione Sovietica): la penisola indocinese fu, infatti, divisa nei quattro stati indipendenti di Laos, Cambogia, Vietnam del Nord e Vietnam del Sud[26], questi ultimi separati lungo il 17º parallelo; nel Vietnam del Nord si costituì una repubblica popolare comunista guidata da Ho Chi Minh e dal movimento Viet Minh (con capitale Hanoi), strettamente legata alla Cina e all'Unione Sovietica, mentre nel Vietnam del Sud si instaurò il governo autoritario del presidente cattolico Ngô Đình Diệm (con capitale Saigon), appoggiato economicamente e militarmente dagli Stati Uniti.

Gli accordi di Ginevra, nel luglio 1954, specificavano la provvisorietà di questa soluzione, in attesa di libere elezioni volte ad unificare la nazione, da tenersi entro luglio 1956, ma queste elezioni non si sarebbero mai svolte; Diệm era ancora debole politicamente nel Sud e quindi rifiutò di organizzare le elezioni, affermando che, a causa del potere comunista a Nord, non avrebbero potuto essere "assolutamente libere" e preferì indire una consultazione popolare per stabilire se lo Stato dovesse essere una monarchia con Bảo Đại come imperatore o una repubblica con Diệm stesso come presidente[27]. Nell'ottobre 1955 Diệm promosse quindi un referendum per stabilire il futuro assetto istituzionale del paese: la consultazione venne controllata e manipolata da Diệm che in questo modo riuscì a far abolire la monarchia e a deporre Bảo Đại, senza spargimenti di sangue[28]. Il 26 ottobre Diệm, grazie al supporto dei servizi segreti statunitensi e forte del 98% dei voti, si autonominò primo presidente della neo-proclamata Repubblica del Vietnam del Sud[29][30]; il suo governo venne subito appoggiato dall'amministrazione del presidente statunitense Dwight D. Eisenhower[31].

Il governo Diệm, con l'aiuto del capo della missione militare statunitense e agente della CIA Edward Lansdale[32], si rafforzò nei primi anni dopo la sua costituzione grazie al successo propagandistico ottenuto con l'afflusso di quasi un milione di vietnamiti, principalmente della minoranza cattolica, emigrati a sud dopo aver abbandonato il nord comunista (cosiddetta operazione "Passage to Freedom"[33], orchestrata dagli statunitensi[34]), ma anche grazie a un'energica politica di repressione delle forze Viet Minh rimaste al sud e a un'efficace lotta contro le società segrete che cercavano di minare l'autorità governativa[35]. Profondamente ostile a Ho Chi Minh e al governo comunista nordvietnamita, Diệm (non privo di qualità e personalmente incorruttibile[36]), sostenuto dagli statunitensi che incrementavano gli aiuti economico-militari e rafforzavano il loro contingente di consiglieri militari, rifiutò di far tenere le elezioni generali previste per il 1956, che avrebbero potuto favorire l'influenza comunista sul governo del Sud[27]. Il governo comunista di Ho Chi Minh inizialmente mantenne un atteggiamento prudente (sollecitato in questo senso anche da Cina e Unione Sovietica) in attesa delle previste elezioni generali da cui ci si attendevano risultati favorevoli, nonostante il rovinoso fallimento della sua riforma agricola di stampo collettivistico, che gli aveva alienato molte delle simpatie guadagnate con la lotta indipendentistica[37].

Inizio dell'insurrezione nel Vietnam del Sud

Lo stesso argomento in dettaglio: Cronologia della guerra del Vietnam.
Monumento vietnamita eretto in ricordo della vittoriosa battaglia di Dien Bien Phu

Di fronte all'ostilità di Diệm e all'aggressività delle forze militari sudvietnamite contro i nuclei vietminh ancora presenti a sud, la dirigenza di Hanoi (sotto l'impulso principalmente di Lê Duẩn) decise, all'inizio del 1957, di riprendere la lotta rivoluzionaria contro il governo di Saigon, organizzando alcune decine di gruppi armati principalmente nelle aree impenetrabili del delta del Mekong[38]. Nel corso del 1957 i guerriglieri filocomunisti (il Khang Chien, la resistenza, nella terminologia delle forze insurrezionali[39]) uccisero oltre 400 funzionari governativi e iniziarono a minare l'autorità del governo di Diệm in molte aree contadine, mentre le truppe nordvietnamite invadevano Laos e Cambogia[40].

Negli anni successivi, la situazione nel Vietnam del Sud peggiorò continuamente, in primo luogo per i gravi errori politici ed economici del governo di Diệm: le autorità imposero tasse ai contadini e organizzarono il rovinoso esperimento dei cosiddetti "villaggi strategici" (agrovilles o Khu Tru mat), che, ideato e voluto dagli statunitensi per isolare la guerriglia dalle popolazioni, provocò in realtà enormi proteste nelle campagne e sconvolse il tradizionale ambiente sociale delle risaie del Vietnam del Sud[41]. La diffusa corruzione nelle campagne e tra le autorità amministrative minò il prestigio del governo e favorì la propaganda e il proselitismo delle forze guerrigliere tra le popolazioni contadine, spesso vittime degli abusi dei funzionari governativi[42]. Diệm, inoltre, accentuò ancor più gli elementi autoritari del suo governo (dominato da personaggi appartenenti al suo ampio nucleo di familiari, tra cui il fratello Ngô Đình Nhu e la cognata Madame Nhu), schiacciando le opposizioni e limitando la libertà di stampa e di critica, alienandosi in questo modo una buona parte degli elementi nazionalisti inizialmente a lui favorevoli. Sorsero, quindi, i primi gruppi di opposizione interna e furono ordite le prime trame volte a organizzare una congiura tra i militari e i funzionari allo scopo di destituire Diệm[43].

Parallelamente all'indebolimento del governo di Diệm, nonostante i crescenti sostegni politici, economici e militari delle autorità statunitensi, il movimento guerrigliero conobbe una costante crescita numerica e organizzativa. Nel maggio 1959 i politici di Hanoi crearono l'"Unità 559", incaricata di ingrandire e potenziare l'impervia strada bordeggiante il Laos e la Cambogia, su cui far transitare uomini, rifornimenti e mezzi per rafforzare le forze insurrezionali (il cosiddetto "sentiero di Ho Chi Minh")[44]. Sempre nel 1959 giunsero le prime precise direttive dal governo di Hanoi per l'organizzazione di una "lotta armata", limitata al Vietnam del Sud, allo scopo di indebolire politicamente il regime di Diệm. Gli attacchi e gli attentati terroristici si moltiplicarono: i funzionari uccisi passarono dai 1200 del 1958 ai 4 000 del 1960[45].

Infine, nel dicembre 1960 venne annunciata la costituzione di un "Fronte di Liberazione Nazionale" (FLN) raggruppante non solo le forze di resistenza comunista, ma anche altri elementi in opposizione al regime di Diệm: capo formale del FLN era Nguyễn Hữu Thọ, personaggio indipendente di scarso potere politico, mentre un ruolo pubblico di rilievo veniva esercitato dalla signora Nguyễn Thị Bình (futuro ministro degli esteri del "Governo Rivoluzionario Provvisorio del Vietnam del Sud" - GRP - costituito formalmente dalle forze insurrezionali nel giugno 1969 con presidente Huỳnh Tấn Phát); in realtà il FLN era dominato dalle forze comuniste, che seguivano le direttive di Hanoi ed erano guidate da abili comandanti come Nguyễn Chí Thanh, Trần Văn Trà e Trần Độ, la cui identità rimase celata fino a dopo la guerra. Gli elementi fondamentali del Fronte furono sempre il Partito Popolare Rivoluzionario (comunista) e l'Esercito di Liberazione (dominato sempre da dirigenti comunisti)[46]. Da quel momento il FLN (definito spregiativamente Viet Cong - vietnamita rosso - dal governo di Diệm e dagli statunitensi) avrebbe ulteriormente incrementato l'intensità della lotta, passando alla guerriglia e anche alla guerra aperta contro le forze militari corrotte e poco efficienti del regime sudvietnamita.

L'attività statunitense dal 1962 al 1965

Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione Ranch Hand.
Carta del Vietnam del Sud con la suddivisione nelle varie province

Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra fu graduale, con personale militare che arrivò in Vietnam già nel 1950 per aiutare i francesi.[47] Durante la presidenza di Dwight D. Eisenhower, l'8 luglio 1959 il maggiore Dale Richard Buis e il sergente Chester Melvin Ovnand, inviati insieme a circa 700 consiglieri militari presenti in Vietnam del Sud, furono uccisi durante un attacco di guerriglieri Viet Cong alla base aerea di Bien Hoa; essi furono i primi caduti statunitensi della guerra in Vietnam[48].

La presidenza di John Fitzgerald Kennedy, su consiglio di Eisenhower e dopo numerose discussioni e pareri ampiamente contrastanti, e nonostante i timori circa il pericolo di una guerra estesa in Asia con il possibile coinvolgimento della Cina, organizzò dapprima tra le grandi potenze una seconda conferenza di Ginevra con la quale fu sancita nel luglio 1962 la neutralità del Laos[49] (che divenne in seguito oggetto di interventi segreti delle forze americane e di infiltrazioni nordvietnamite) e decise poi di potenziare la missione militare in Vietnam del Sud, con un notevole incremento di consiglieri militari e con l'afflusso di reparti di forze speciali per organizzare la lotta contro insurrezionale secondo le nuove dottrine belliche sviluppate dal Pentagono[50]. Già nel biennio 1962 - 1963 erano iniziati i voli di elicotteri e aerei statunitensi impegnati ad irrorare con sostanze chimiche - tra cui il defoliante "Agente Arancio" - la giungla del Vietnam del Sud al fine di colpire la guerriglia ed i vietcong e di impedire i rifornimenti a questi ultimi.

Caduti Viet Cong

Nella terminologia statunitense dell'epoca, si parlò di "aggressione" delle forze comuniste del Vietnam del Nord, sulla base di direttive concrete dei due giganti Cina e Unione Sovietica, al libero e democratico stato del Vietnam del Sud (aggressione considerata naturalmente solo come il primo passo della teoria del domino in tutto il Sud-est asiatico e forse nel Pacifico[51]); in tal modo l'intervento militare statunitense poté essere definito dalla propaganda come un "nobile impegno" per aiutare il governo sudvietnamita.[52] Anche se la guerra del Vietnam fu dipinta dalla propaganda statunitense come lo sforzo di una coalizione di stati democratici in lotta contro la sovversione comunista, la gran parte delle nazioni coinvolte a fianco del Vietnam del Sud mandò pro forma solo contingenti simbolici, per onorare gli obblighi con gli Stati Uniti previsti dai patti di mutua difesa della SEATO. Il più significativo di essi fu senza dubbio il contingente della Corea del Sud, che arrivò a contare ben 48 000 soldati, combattivi e particolarmente temuti[53]; a seguire, subito dopo, l'Australia (7 000 combattenti al 1967[54]), la Thailandia (una divisione nel 1968), le Filippine (2 000 uomini al 1966), Taiwan (altri 2 000 uomini) e la Nuova Zelanda (552).

Le presidenze Kennedy, Johnson e il colpo di Stato nel Vietnam del Sud

Lo stesso argomento in dettaglio: Military Assistance Command, Vietnam, Ngô Đình Diệm e Operazione 34A.
«Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarlo.[55]»

(John Fitzgerald Kennedy al direttore del New York Times, James Reston, nel giugno 1961)

La politica delineata da John Fitzgerald Kennedy nella campagna per la presidenza del 1960 riteneva indispensabile, di fronte all'indebolimento della posizione statunitense a livello mondiale e dopo lo smacco di Cuba, una dimostrazione di potenza politico-militare nel Sud-est asiatico, ritenuto un banco di prova della determinazione americana a sostenere la lotta contro la sovversione comunista[56].

Operazioni di spionaggio-sabotaggio da parte degli USA sul territorio nordvietnamita erano già in corso dal 1961.

Alla metà del 1962 il numero dei consiglieri militari americani era già salito a 12 000 uomini[57], spesso impegnati in modo diretto nelle operazioni antiguerriglia, con 31 caduti[58], mentre già nel febbraio 1962 venne costituito un grande comando combinato in Vietnam, il MACV (Military Assistance Command, Vietnam) comandato inizialmente dal generale Paul Harkins e poi, nel giugno 1964, dal generale William Westmoreland[59].

Con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, contemporaneamente all'incremento del numero dei consiglieri, si moltiplicarono le covert operations, non divulgate ufficialmente per mascherare il coinvolgimento statunitense, finalizzato a minare la compattezza del Vietnam del Nord e a bloccare il suo sostegno alla lotta insurrezionale nel Sud.

Il presidente Kennedy diede inizio fin dal 1961 al potenziamento dell'intervento statunitense in Vietnam

Gli sforzi del presidente Kennedy erano diretti a rafforzare economicamente, politicamente e militarmente il regime del Sud, auspicandone la trasformazione in un fiorente stato democratico in grado di fronteggiare la sfida del movimento guerrigliero Viet Cong. L'aiuto al Sud venne spesso concesso a patto che il governo locale attuasse determinate riforme politiche. Ben presto i consiglieri del governo statunitense giocarono un ruolo determinante, influenzando a ogni livello il governo sudvietnamita. In realtà il governo di Diệm, durante gli anni della presidenza Kennedy, scivolò pericolosamente sempre più verso l'autoritarismo e la corruzione; la struttura amministrativa si indebolì, le campagne, sempre più ostili (anche a causa dell'inviso programma di "villaggi strategici"[60]), furono profondamente infiltrate dal movimento insurrezionale, la lotta contro i Viet Cong fu costellata da umilianti fallimenti nonostante l'aiuto americano (come la clamorosa sconfitta di Ap Bac del gennaio 1963[61]); all'interno lo spiccato nepotismo di Diệm e il suo favoritismo nei confronti della minoranza cattolica scatenarono violente proteste, culminate in clamorose manifestazioni autodistruttive durante la crisi buddista del Vietnam, che scatenarono a loro volta la violenta reazione governativa[62].

Il pomeriggio del 17 giugno 1963 Ho Chi Mihn riunì il comitato centrale del partito comunista nordvietnamita, informandolo delle trattative in corso con gli Stati Uniti e chiedendo che la nazione si preparasse a una lunga guerra. Concluse dicendo:

«McNamara ci ha intimato di smettere di appoggiare la guerriglia comunista sudvietnamita, altrimenti riceveremo più bombe di quante non ne abbiano avute Italia, Germania, Giappone e Corea del Nord messi assieme e questo solo perché gli abbiamo chiesto - se egli si fosse trovato nei nostri panni - se avrebbe accettato un diktat di uno stato straniero che gli vietasse la riunificazione generale. Ebbene, io lo ammonisco che la guerra che verrà sarà dura e che io potrò perdere anche mille uomini per ogni soldato americano caduto, ma l'esito sarà ugualmente quello da me atteso, perché noi vinceremo la guerra e gli Stati Uniti la perderanno»[63].

Soldati del Vietnam del Sud sul campo di battaglia nel 1961

Il costante deterioramento della situazione politica e militare nel Vietnam del Sud e il dispotismo di Diệm stavano provocando grandi discussioni tra i dirigenti americani dell'amministrazione Kennedy; si parlò della necessità di riformare il governo sudvietnamita, sacrificando all'occorrenza anche lo stesso Diệm, ritenuto inetto e ostinato. I funzionari americani dell'ambasciata, guidati dall'ambasciatore statunitense Henry Cabot Lodge Jr., e alcuni inviati speciali presero i primi accordi con alcuni capi militari sudvietnamiti per un eventuale colpo di Stato[64].

Il presidente del Vietnam del Sud Ngô Đình Diệm fu assassinato nel 1963 durante un colpo di Stato militare appoggiato dagli statunitensi

Alcuni generali sudvietnamiti, apparentemente sollecitati dal personale dell'ambasciata americana e aiutati dall'ex agente segreto Lucien Conein, organizzarono quindi un colpo di stato, rovesciando e uccidendo Diệm e il fratello Nhu il 1º novembre 1963[65]. Non è del tutto chiaro il ruolo di Kennedy e dei massimi dirigenti dell'amministrazione americana in questa macchinazione per rovesciare Diệm[66]. Ben lontana dall'unire e rafforzare la nazione sotto la nuova leadership, la morte di Diệm rese il sud ancor più instabile. I nuovi governanti militari (prima il generale Dương Văn Minh, poi il generale Nguyễn Khánh nel 1964 e infine la coppia Nguyễn Cao Kỳ - Nguyễn Văn Thiệu nel 1967) erano poco esperti di questioni politiche ed erano ancora più corrotti e inefficienti dell'amministrazione Diệm. La lotta contro i Viet Cong diede risultati sempre più disastrosi e l'autorità centrale perse ulteriore prestigio e potere, con grande irritazione e sconcerto dei dirigenti americani e dei sempre più numerosi consiglieri politici e militari inviati sul posto per salvare una situazione seriamente compromessa[67]. Tre settimane dopo la morte di Diệm e l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, la nuova presidenza di Lyndon B. Johnson si dimostrò favorevole all'impegno statunitense in Indocina, confermando fin dal 24 novembre 1963 che gli Stati Uniti intendevano continuare ad appoggiare il Vietnam del Sud, militarmente ed economicamente[68], nonostante non fosse privo di dubbi e incertezze sull'esito finale dell'impresa[69]. Nonostante l'attività statunitense, le azioni dei guerriglieri Viet Cong furono pressoché continue, realizzandosi anche in alcuni attentati di particolare rilevanza, come il bombardamento del Brinks Hotel di Saigon nel 1964 e l'attentato alla vecchia ambasciata americana di Saigon nel 1965.

L'incidente del golfo del Tonchino

Lo stesso argomento in dettaglio: Incidente del golfo del Tonchino.

Johnson non aveva fatto parte della cerchia ristretta dei collaboratori di Kennedy e quindi era stato spesso escluso dalle decisioni fondamentali riguardo al Vietnam; inoltre non era stato coinvolto nel colpo di Stato contro Diệm (in una visita ufficiale in quel paese, in precedenza aveva definito retoricamente il presidente sudvietnamita "il Churchill del sud-est asiatico"[70]). Egli assunse pienamente la responsabilità della guerra, pur organizzando continue riunioni e missioni speciali dei suoi collaboratori sul posto, alla ricerca di nuove soluzioni e di risultati positivi, principalmente per il timore di apparire "debole" con i comunisti e, quindi, rischiare di essere attaccato dai politici di destra, che avrebbero potuto mettere in pericolo il suo grandioso piano di riforme sociali (il progetto della Great Society); inoltre contava di riuscire a circoscrivere l'impegno statunitense e di poter controllare l'attivismo e l'interventismo dei militari[71]. Al contrario, diede inizio a una catena di eventi che lo avrebbero lentamente coinvolto sempre più nel "pantano" indocinese[72].

Il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson

Johnson alzò ulteriormente il livello del coinvolgimento statunitense già il 27 luglio 1964, quando altri 5 000 consiglieri militari vennero inviati nel Vietnam del Sud, il che portò il numero totale di forze statunitensi in Vietnam a 21 000. Inoltre sorse a questo punto il problema della necessità di un documento legislativo che autorizzasse il presidente a sviluppare e potenziare a discrezione la politica di intervento militare, sollecitata continuamente dai suoi consiglieri più influenti (il segretario della Difesa Robert McNamara, l'ambasciatore Maxwell Taylor, il generale Westmoreland, McGeorge Bundy e Walt Rostow)[73]. Eventi confusi verificatisi nel golfo del Tonchino nell'estate 1964 diedero il pretesto per ottenere il mandato del Congresso degli Stati Uniti d'America necessario al presidente.

Nel quadro del cosiddetto "programma DeSoto", che prevedeva operazioni segrete e incursioni terrestri e navali da parte di reparti sudvietnamiti e statunitensi nel territorio del Vietnam del Nord, il 31 luglio 1964 alcune unità navali statunitensi (il cacciatorpediniere USS Maddox e la portaerei USS Ticonderoga) furono coinvolte in un primo scontro con torpediniere nordvietnamite. Ben coscienti del rischio di queste missioni di dubbia legalità internazionale, i dirigenti statunitensi autorizzarono una seconda missione in acque nordvietnamite da parte del Maddox, ora affiancato anche dal USS C. Turner Joy.

Torpediniere nordvietnamite riprese dal cacciatorpediniere USS Maddox durante l'incidente del 2 agosto 1964

Il 4 agosto ebbe quindi inizio il nuovo pattugliamento, finalizzato a intercettare con dispositivi elettronici le comunicazioni nordvietnamite, e durante la mattina di quel giorno si verificò uno scontro a fuoco tra motovedette nordvietnamite ed un pattugliatore statunitense. Sembra che il cacciatorpediniere C. Turner Joy abbia ritenuto, sulla base di confusi segnali radar percepiti durante una notte di maltempo, di essere di nuovo sotto attacco nordvietnamita, e quindi abbia dato il via ad un caotico scontro a fuoco delle navi statunitensi contro bersagli forse inesistenti[74]. Sulla base dei documenti desecretati nel 2005, in uno dei casi le navi americane interpretarono erroneamente un segnale sonoro come un nuovo attacco, ma vennero confermati gli attacchi nordvietnamiti in acque internazionali[75]

Nonostante le incertezze e la confusione dei rapporti, Johnson e i suoi collaboratori sfruttarono questo presunto secondo attacco per presentare finalmente al Congresso il documento (già pronto da tempo[76]) che avrebbe dato all'amministrazione il via libera per prendere le misure ritenute necessarie per difendere e salvaguardare il personale statunitense e soprattutto per condurre vittoriosamente la guerra in Vietnam.

I bombardamenti sul Vietnam del Nord

Lo stesso argomento in dettaglio: Bombardamento del Brinks Hotel di Saigon, Operazione Flaming Dart, Operazione Arc Light, Operazione Pierce Arrow e Operazione Rolling Thunder.

Gli Stati Uniti erano già sotto accusa per avere abbandonato il loro alleato Chiang Kai-shek e perduto la Cina, nonché per non essere riusciti a punire gli aggressori nordisti in Corea. Non potevano lasciarsi umiliare anche in Vietnam.[77] Il Senato statunitense approvò quindi la «risoluzione del Golfo del Tonchino» il 7 agosto 1964, con la quale conferì pieni poteri al presidente Johnson per aumentare il coinvolgimento statunitense nella guerra «come il presidente riterrà opportuno» al fine di «respingere gli attacchi contro le forze degli Stati Uniti e per prevenire ulteriori aggressioni»[78]. In un messaggio televisivo alla nazione, Johnson sostenne che «la sfida che stiamo affrontando oggi, nel sud-est asiatico, è la stessa che affrontammo con coraggio in Grecia e in Turchia, a Berlino e in Corea, in Libano e a Cuba», una lettura semplicistica delle questioni politiche del conflitto vietnamita[79].

Durante la seconda metà del 1964 e gli inizi del 1965 la situazione sul campo nel Vietnam del Sud continuò a peggiorare per le forze governative[80]: i reparti Viet Cong, saliti a oltre 170 000 combattenti[81] e supportati per la prima volta dall'infiltrazione di forze regolari nordvietnamite dell'agguerrito Esercito Popolare Vietnamita[82] (in tutto il 1964 oltre 10 000 soldati nordvietnamiti passarono al sud e quasi 20 000 nel 1965[83]), sferrarono una serie di attacchi che misero in grave difficoltà l'esercito sudvietnamita; a dicembre 1964, nel villaggio di Binh Gia, i reparti sudvietnamiti caddero in una sanguinosa imboscata Viet Cong, subendo pesanti perdite[84]. A Washington Johnson, sempre più inquieto ed indeciso, moltiplicò le riunioni con i suoi consiglieri per decidere le misure da prendere per salvare una situazione apparentemente compromessa[85].

Cacciabombardieri statunitensi impegnati in una missione di bombardamento sul Vietnam del Nord durante l'operazione Rolling Thunder

I membri del National Security Council, tra cui McNamara, il segretario di Stato Dean Rusk e Maxwell Taylor, concordarono quindi il 28 novembre 1964 di suggerire al presidente Johnson una campagna di bombardamenti progressivi sul Vietnam del Nord e anche sul Laos come strumento di pressione sul governo nordvietnamita[86]; per il momento furono invece rinviate decisioni sull'intervento diretto delle forze terrestri statunitensi (proposto dal consigliere Walter Rostow[87]).

Una serie di attacchi Viet Cong contro le basi e il personale statunitense in Vietnam avrebbe fatto precipitare la situazione nei primi mesi del 1965, portando a decisioni cruciali dell'amministrazione Johnson: prima l'attacco del 24 dicembre 1964 al Brinks Hotel di Saigon (dove erano alloggiati ufficiali americani) e soprattutto l'attacco Viet Cong contro installazioni statunitensi alla base aerea di Pleiku (6 febbraio 1965) fornirono l'occasione alla dirigenza politica statunitense per iniziare i bombardamenti aerei sistematici sul Vietnam del Nord; in risposta a questi attacchi il presidente Johnson ordinò quindi l'inizio immediato dell'operazione Flaming Dart, consistente in attacchi aerei di rappresaglia.[88]

Dopo questa prima fase, il 2 marzo 1965 iniziò il piano di attacchi aerei sistematici sulle strutture logistiche e militari del Vietnam del Nord, con aerei decollati dalle basi aeree americane in via di organizzazione in Thailandia e dalle portaerei posizionate al largo delle coste nordvietnamite; tali posizioni furono soprannominate Yankee Station.[89] I bombardamenti (operazione Rolling Thunder), inizialmente previsti per la durata di otto settimane, sarebbero continuati, sempre più violenti ed estesi su nuovi bersagli, quasi ininterrottamente fino alla metà del 1968: fu la campagna di bombardamento aereo più pesante dai tempi della seconda guerra mondiale (300 000 missioni), vennero sganciate più bombe sul Vietnam del Nord che sulla Germania (860 000 tonnellate), ma i risultati furono nel complesso deludenti.

Il morale della popolazione e la volontà politica della dirigenza nemica non crollò e anzi uscirono rafforzati dagli attacchi: i danni strutturali furono rilevanti, ma non decisivi in una società arretrata e contadina come quella vietnamita; gli intralci alla macchina militare nordvietnamita (rifornita principalmente da Cina e URSS attraverso il porto di Haiphong) furono scarsi e l'infiltrazione delle truppe regolari al sud viceversa aumentò costantemente. Le forze aeree statunitensi subirono inoltre perdite rilevanti (922 aerei perduti) di fronte alla valida difesa antiaerea nemica[90] e alle pericolose forze aeree nordvietnamite.

L'intervento diretto degli USA

Lo stesso argomento in dettaglio: Presidenza di Lyndon B. Johnson § Vietnam.
«Ho chiesto al generale Westmoreland che cosa gli servisse per far fronte a questa crescente aggressione. Me lo ha detto. E noi soddisferemo le sue richieste. Non possiamo essere sconfitti con la forza delle armi. Rimarremo in Vietnam.[91]»

(Lyndon Johnson in un discorso televisivo alla nazione il 28 luglio 1965)

«Combatteremo per mille anni![92]»

(Slogan propagandistico delle forze nordvietnamite e Viet Cong)

Durante la presidenza di Lyndon B. Johnson l'amministrazione statunitense si affidò come giustificazione per l'intensificazione del conflitto e l'invio di forze combattenti sul campo di battaglia al suo ruolo di comandante in capo delle forze armate, in base alla "risoluzione del Golfo del Tonchino", votata a larghissima maggioranza dal Congresso statunitense, che autorizzava il presidente a prendere le disposizioni ritenute, a sua discrezione, necessarie per proteggere gli interessi statunitensi[93]. Tale questione avrebbe dovuto ragionevolmente essere risolta dalla Corte suprema degli Stati Uniti, ma nessun caso venne mai portato all'attenzione della corte; inoltre tutte le risoluzioni parlamentari presentate per limitare i poteri del presidente vennero sistematicamente respinte almeno fino al 1969; la risoluzione venne revocata solo nel maggio 1970[94].

Le attività operative

L'arrivo dei primi reparti da combattimento

Lo stesso argomento in dettaglio: Search and destroy (tattica militare).
Soldati statunitensi della 25ª divisione fanteria impegnati in una missione Search and Destroy nell'estate 1966

Sotto il comando del contrammiraglio Donald W. Wulzen, la VIIª Forza anfibia della United States Navy iniziò le operazioni di sbarco sulla costa del Vietnam del sud alle 8.15 dell'8 marzo 1965: 3 500 marines della 9ª Marine Expeditionary Brigade (MEB), guidata dal generale di brigata Frederick J. Karch, accompagnati da elicotteri, mezzi da sbarco, autocarri e jeep, presero terra sulle spiagge denominate in codice "Red Beach Two" e "China Beach" lungo il litorale limitrofo alla città portuale di Đà Nẵng, riunendosi poi 4 miglia a nord-ovest di questa; non ci fu opposizione da parte di guerriglieri e la popolazione accolse festosamente le truppe statunitensi[95]. I marines andarono ad aggiungersi ai 25 000 consiglieri militari statunitensi che erano già sul posto.

La pianificazione originale prevedeva che questa unità dei Marines fosse impiegata solo per proteggere la grande base militare di Da Nang da eventuali minacce del nemico e Johnson ebbe cura di minimizzare l'importanza dell'arrivo delle prime truppe da combattimento sul suolo vietnamita, ma ben presto i marines sarebbero entrati direttamente in azione contro i reparti Viet Cong presenti nell'area[96].

Il 5 maggio entrarono in campo anche i primi reparti combattenti dell'esercito statunitense; la 173ª brigata aviotrasportata (facente parte delle forze di intervento rapido del Pacifico) venne rischierata d'urgenza per via aerea da Okinawa alla base di Bien Hoa per rafforzare le difese dell'area di Saigon pericolosamente minacciate dalle truppe Viet Cong. L'unità aviotrasportata avrebbe dovuto essere impiegata solo temporaneamente per tamponare la situazione d'emergenza, ma dovette subito entrare in azione e in pratica sarebbe poi rimasta in Vietnam fino al 1970[97].

Infine il 28 luglio 1965 Johnson, di fronte alla crescente disgregazione delle forze sudvietnamite e all'aggressività dei Viet Cong ora rinforzati dall'afflusso di reparti regolari nordvietnamiti[98], decise definitivamente di accettare le richieste di uomini e mezzi e il piano di guerra del comandante supremo in Vietnam, il responsabile del Military Assistance Command, Vietnam ("Comando Assistenza Militare, Vietnam" o MACV), generale William Westmoreland, che prevedeva un impegno quasi illimitato delle truppe da combattimento statunitensi direttamente nella guerra, e diede annuncio pubblicamente delle sue decisioni (anche se continuò in parte a mascherare con artifizi propagandistici la gravità del suo passo)[99]. Prese quindi avvio la vera escalation americana del conflitto in Indocina.

Il giorno dopo, 29 luglio, 4 000 paracadutisti appartenenti alla 1ª brigata della 101st Airborne Division arrivarono in Vietnam, atterrando nella baia di Cam Ranh per rinforzare ancora l'ordine di battaglia americano in Vietnam e proteggere la regione montuosa e impervia degli altopiani centrali[97].

I piani di guerra statunitensi

Lo stesso argomento in dettaglio: Linea McNamara e Sentiero di Ho Chi Minh.

Il piano delineato dal generale Westmoreland, sostanzialmente condiviso dal segretario della difesa Robert McNamara e approvato "in linea di principio" dal presidente Johnson, prevedeva un complesso programma di potenziamento graduale, scaglionato su vari anni, delle forze combattenti statunitensi; grazie al continuo afflusso di nuove truppe potentemente armate e dotate di un formidabile sostegno logistico, il generale intendeva in primo luogo costituire una solida struttura di basi e supporti per le sue truppe. Quindi sarebbero stati bloccati (nella seconda metà del 1965), grazie all'intervento diretto dei reparti combattenti statunitensi, i tentativi offensivi delle forze comuniste, respingendo e schiacciando i loro tentativi di far crollare l'esercito sudvietnamita e tagliare in due parti il Vietnam del Sud con un'avanzata dagli altopiani centrali in direzione della costa.

Ufficiali statunitensi della 101ª divisione aviotrasportata conferiscono durante un'operazione Search and Destroy nel 1966

Ottenuto questo primo risultato, nel 1966 sarebbero iniziate le grandi operazioni offensive di "ricerca e distruzione" (Search and destroy nella terminologia dell'esercito statunitense) dei principali raggruppamenti nemici e delle loro roccaforti geografiche. Le forze da combattimento statunitensi sarebbero penetrate in queste regioni dominate dal nemico e, contando su una formidabile potenza di fuoco terrestre e aerea e sulla mobilità fornita dagli elicotteri, avrebbero affrontato e distrutto i reparti Viet Cong o nordvietnamiti che avessero opposto resistenza, infliggendo perdite debilitanti.

In una terza fase, prevista per il 1967-1968, le forze statunitensi, dopo aver rastrellato le roccaforti nemiche e aver assicurato le aree più popolate, avrebbero respinto le residue truppe nemiche nelle regioni più spopolate e impervie del Vietnam del Sud e avrebbero conseguito la vittoria finale, costringendo il nemico alla resa politica o alla capitolazione militare, dopo avergli inflitto, per mezzo di questa guerra di attrito, perdite sempre più gravi e insostenibili (causandone anche un crollo della determinazione politico-militare)[100].

I punti deboli di questa strategia si sarebbero rivelati, anzitutto, la difficoltà di agganciare e distruggere concretamente le forze nemiche, combattive, molto mobili anche in terreni impervi, resistenti alla demoralizzazione e in grado di sfuggire al nemico, nonché di sferrare improvvisi attacchi di piccole unità, infliggendo in questo modo continue perdite alle forze statunitensi. Inoltre, a causa dell'impossibilità per ragioni politiche da parte delle forze militari statunitensi di penetrare direttamente in Laos e Cambogia, il Vietnam del Nord fu in grado di infiltrare, a partire dal 1964, reparti del suo esercito regolare sempre più numerosi (79 000 soldati nel 1966 e 150 000 nel 1967[101]) nel Vietnam del Sud, attraverso il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh che attraversava questi territori formalmente neutrali, con cui sostenere e rafforzare la lotta delle truppe guerrigliere Viet Cong.

In secondo luogo, si sarebbe ben presto evidenziata l'impossibilità di mantenere permanentemente occupate e sicure le roccaforti del nemico apparentemente rastrellate più volte, ma sempre infiltrate nuovamente dalle forze comuniste, con la conseguenza, per le truppe statunitensi, di dover organizzare e condurre nuove snervanti e pericolose operazioni offensive per bonificare temporaneamente sempre gli stessi territori.

In terzo luogo, in una guerra di attrito le perdite statunitensi, notevoli anche se molto inferiori a quelle nemiche, avrebbero finito per provocare un crollo della volontà politico-militare proprio dell'opinione pubblica e della stessa dirigenza americana, insoddisfatta dei risultati, turbata dalle perdite, moralmente scossa dalla violenza degli scontri e dall'imprevedibile durata della guerra[102].

Nella fase iniziale dell'intervento statunitense vennero studiati anche altri progetti operativi, che poi non vennero applicati: il piano del capo di stato maggiore, il generale dell'esercito sudvietnamita Cao Van Vien, prevedeva per esempio la fortificazione di una zona lungo il 17º parallelo da Dong Ha, in Vietnam, a Savannakhet, al confine tra Laos e Thailandia. Sembra che un piano simile fosse stato proposto anche dal comando riunito degli stati maggiori americani nell'agosto 1965 e che lo stesso generale Westmoreland non fosse contrario[103].

Lo studio JASON e l'"escalation"

Lo stesso argomento in dettaglio: Escalation (guerra del Vietnam).
Soldati della 1ª divisione cavalleria aerea in azione durante la battaglia di Ia Drang

A partire dalla metà del 1965 ebbe inizio il continuo afflusso di enormi forze statunitensi, distribuite nelle quattro regioni militari in cui era suddiviso il Vietnam del Sud e subito impiegate sul campo per mettere in esecuzione i piani del generale Westmoreland. Dopo l'arrivo della 3ª divisione Marines e la costituzione della III MAF (Marine Amphibious Force) nella I regione militare (che comprendeva la zona smilitarizzata sul confine del 17º parallelo), quello della 173ª brigata aviotrasportata e della 1ª brigata della 101ª divisione aviotrasportata, rispettivamente nella III (Saigon) e nella II regione militare (province centrali), nel resto del 1965 arrivarono anche la 1ª divisione cavalleria aerea, la 1ª divisione fanteria e la 3ª brigata della 25ª divisione fanteria, portando il totale delle forze americane sul terreno a 184 000 uomini.[97] Nell'estate del 1966, presso la scuola di Wellesley nel Massachusetts, quarantasei studiosi e consiglieri accademici elaborarono lo "studio JASON", sulla base delle cui elaborazioni si sosteneva che:

  1. la campagna di bombardamenti non aveva "alcun effetto direttamente misurabile" sulle attività militari del nemico, perché il Vietnam del Nord si basava su un'economia essenzialmente agricola, il riso rappresentava un bersaglio inadeguato per le incursioni aeree;
  2. il volume dei rifornimenti inviati dal Vietnam del Nord al Sud, usando le biciclette, era troppo piccolo per essere fermato con un bombardamento aereo e in ogni caso il paese disponeva di un'abbondante manodopera per mantenere intatta la propria rudimentale rete logistica;
  3. le osservazioni del sistema di spionaggio dimostravano che l'infiltrazione al Sud era aumentata dall'inizio dei bombardamenti;
  4. i bombardamenti avevano rafforzato l'entusiasmo patriottico e rafforzato la volontà di resistere.[104]

Nel 1966, l'escalation sarebbe continuata con l'arrivo della 1ª divisione Marines, delle altre due brigate della 25ª divisione fanteria, della 196ª e della 199ª brigata fanteria leggera, dell'11º reggimento cavalleria corazzata e, infine, della 9ª divisione fanteria (schierata nel delta del Mekong, IV regione militare). Inoltre il 15 marzo 1966 vennero costituiti due grandi comandi tattici dell'esercito (equivalenti a comandi di corpo d'armata): la I Field Force, Vietnam, incaricata delle operazioni nella II regione militare, e la II Field Force, Vietnam, assegnata alla III e alla IV regione militare. Alla fine del 1966 erano presenti in Vietnam 385 000 soldati americani, costantemente impegnati nelle missioni di "ricerca e distruzione" delle forze nemiche[105].

Infine nel 1967, terzo anno di escalation e, secondo i progetti di Westmoreland, anno in cui sarebbe stata impressa una svolta decisiva alle operazioni, le forze statunitensi raggiunsero il numero di 472 000 uomini. Gli arrivi di nuovi reparti organici furono continui durante tutto l'anno, anche se in misura minore e in ritardo rispetto ai piani del generale a causa delle continue incertezze del presidente Johnson (e in questa fase anche del ministro della difesa McNamara), preda sempre più spesso di dubbi e preoccupazioni sull'esito reale della guerra.

Arrivarono quindi successivamente in Vietnam: due reggimenti della nuova 5ª divisione Marines, che rafforzarono la III MAF nell'instabile I regione militare; due nuove brigate di fanteria (l'11ª e la 198ª), che furono aggregate alla 196ª brigata fanteria leggera già presente sul posto, per costituire la 23ª divisione fanteria (la cosiddetta Americal Division), subito inviata in aiuto dei marines al nord inquadrata nella "Task Force Oregon"; infine la 4ª divisione fanteria e le altre due brigate (2ª e 3ª) della 101ª divisione aviotrasporta, che vennero schierate nell'area di confine con il Laos e la Cambogia per impegnare e distruggere le sempre crescenti forze nordvietnamite che si infiltravano lungo il sentiero di Ho Chi Minh[106].

Le offensive statunitensi

Marines statunitensi, appena atterrati a Đà Nẵng nel 1965, stanno per entrare in azione direttamente nei combattimenti

Pienamente fiducioso nelle sue forze e nei suoi piani, il generale Westmoreland il 18 agosto 1965 diede quindi inizio all'operazione Starlite, nome in codice della prima offensiva americana di "ricerca e distruzione" della guerra: 5500 marines distrussero una roccaforte Viet Cong sulla penisola di Van Tuong, nella provincia di Quang Ngai[107]. Le forze Viet Cong e nordvietnamite, tuttavia, compresero da questa prima sconfitta campale la pericolosità di affrontare direttamente la schiacciante superiorità tecnologica statunitense e quindi si concentrarono su azioni di guerra e guerriglia di piccole dimensioni per infliggere perdite e logorare lentamente il potente nemico.

Durante la seconda metà del 1965 le forze combattenti statunitensi intervennero in tutto il territorio vietnamita. I soldati americani arginarono le pericolose avanzate delle forze nordvietnamite negli altopiani centrali dove ebbe luogo la battaglia di Ia Drang dell'ottobre-novembre 1965, che si concluse, dopo cruenti scontri, con il parziale successo delle truppe della cavalleria aerea statunitense, impegnate per la prima volta contro gli agguerriti reparti regolari nordvietnamiti[108]. Inoltre le truppe del generale Westmoreland entrarono in azione per contrastare le forze Viet Cong attive e pericolose nell'area della capitale e per stabilizzare la situazione lungo la zona smilitarizzata di confine. Nel dicembre 1965 si svolse l'operazione Harvest Moon, con i marines per la prima volta impegnati nel difficile terreno delle risaie.

Soldati statunitensi della 1st Cavalry Division armati di M16 n combattimento accanto ai loro elicotteri UH-1

I risultati furono, nel complesso, soddisfacenti, ma fin dall'inizio si evidenziarono difficoltà per le forze statunitensi; i nordvietnamiti e i Viet Cong si dimostrarono in grado di infliggere continue perdite alle truppe americane, come dimostrato per la prima volta dalla drammatica battaglia della Landing Zone Albany del 17 novembre 1965, dove un battaglione di cavalleria aerea venne quasi distrutto dai nordvietnamiti (lo scontro singolo con il più alto numero di perdite per gli americani di tutta la guerra[109])[110]. Risultò, inoltre, impossibile per le truppe statunitensi, per ragioni di politica internazionale e per timore di un intervento cinese, penetrare in Cambogia e in Laos per attaccare i cosiddetti "santuari" nemici, dove le forze comuniste si ritiravano, si riorganizzavano e si rafforzavano dopo i combattimenti[111].

Nel febbraio 1966, durante una riunione tra il comandante supremo statunitense e Johnson a Honolulu, l'ufficiale americano sostenne che l'intervento delle forze statunitensi aveva evitato la sconfitta e il crollo politico del Vietnam del Sud, ma che sarebbero state necessarie molte più truppe per poter passare all'offensiva[112]; un aumento immediato poteva portare a raggiungere il "punto di svolta" nelle perdite di Viet Cong e nordvietnamiti per gli inizi del 1967[113]. Johnson, preoccupato dell'evolversi della situazione sul campo[114], finì per autorizzare un incremento delle truppe fino a 429 000 unità per l'agosto 1966.

Nel 1966 Westmoreland diede inizio, quindi, alle grandi operazioni di "ricerca e distruzione", con lo scopo di strappare l'iniziativa al nemico, attaccarlo direttamente nelle sue roccaforti e infliggergli perdite devastanti grazie alle sue potenti forze aeromobili e al sostegno massiccio dell'aviazione. In tutte e quattro le regioni militari si succedettero durante l'anno continue e ambiziose operazioni offensive statunitensi; i successi tattici furono rilevanti e la cosiddetta "conta dei corpi" (i conteggi empirici del servizio informazioni americano sulle perdite presunte del nemico) diede ufficialmente la misura delle vittorie statunitensi sul campo[115].

Le maggiori operazioni si svolsero nella zona smilitarizzata, dove i marines furono duramente impegnati dall'esercito regolare nordvietnamita (operazione Prairie e battaglia di Mutter's Ridge)[116]; nella provincia costiera di Binh Dinh, dove la cavalleria aerea inflisse notevoli perdite alle forze nemiche (operazione Masher)[117]; nell'area degli altopiani centrali contro le nuove infiltrazioni nordvietnamite (operazione Thayer e operazione Hawthorne condotte dagli aviotrasportati della 101ª[118]); infine nelle aree intorno alla capitale Saigon, dove le forze Viet Cong furono spesso in grado di sfuggire ai colpi nemici e contrattaccare (operazione El Paso e, soprattutto, la deludente operazione Attleboro)[119].

Alla fine del 1966, le perdite americane erano già salite a oltre 7 000 morti[120], un numero molto inferiore alle perdite presunte del nemico, ma tuttavia sufficiente a cominciare a scuotere il morale delle truppe, dell'opinione pubblica americana in patria e della stessa dirigenza americana. Nonostante le ottimistiche dichiarazioni di Westmoreland e di altri ufficiali americani, cominciavano già a sorgere i primi dubbi sulla razionalità ed efficacia dei piani e dei metodi adottati dalle truppe e dai comandi americani[121], secondo alcuni esperti troppo concentrati sulle grandi operazioni convenzionali e poco interessate a sviluppare adeguati piani di pacificazione, riforma economica e miglioramento delle condizioni delle popolazioni dei villaggi contadini[122].

Soldati dell'esercito nordvietnamita pronti a passare all'attacco

Nonostante queste critiche, il generale Westmoreland, sempre convinto della validità della sua strategia di guerra d'attrito, incrementò ancora durante la prima metà del 1967 il ritmo delle sue operazioni offensive di "ricerca e distruzione"[123]; le forze e i mezzi impiegati furono notevoli, gli obiettivi sempre più ambiziosi, ma i risultati rimasero nel complesso discutibili e non decisivi. A gennaio e a marzo 1967 grandi forze statunitensi vennero impiegate nel cosiddetto triangolo di ferro (operazione Cedar Falls, la più grande offensiva americana della guerra[124]) e nella provincia di Tay Ninh alla ricerca del fantomatico COSVN (Central Office of South Vietnam), il presunto quartier generale delle forze comuniste (operazione Junction City); nonostante l'enorme impiego di truppe e mezzi, il nemico sfuggì ancora alla distruzione e il COSVN, se veramente esistente, ripiegò al sicuro in Cambogia[125].

Nella zona smilitarizzata i marines si impegnarono in continue offensive (operazioni Belt Tight, Hickory e Buffalo) per impedire le infiltrazioni nordvietnamite, ma subirono un forte logorio senza riuscire a impedire il concentramento nemico contro le basi di fuoco statunitensi organizzate sul confine. Infine, nella provincia di Binh Dinh, l'interminabile operazione Pershing (durata quasi un anno) di nuovo non riuscì a sradicare definitivamente la presenza nemica nella regione[126]. Le perdite inflitte alle forze nordvietnamite e Viet Cong furono senza dubbio molto elevate, ma non impedirono, nella seconda metà del 1967, al comando nordvietnamita e alla dirigenza di Hanoi di organizzare una serie di manovre offensive nella zona smilitarizzata e nella regione del confine con Laos e Cambogia (pianificate per incrementare le perdite americane e scuoterne il morale), che avrebbero provocato alcune delle più dure battaglie della guerra[127].

Durante queste "battaglie dei confini", le forze nordvietnamite tentarono audacemente di attaccare e conquistare alcune importanti postazioni isolate statunitensi; a Con Thien per mesi la guarnigione dei marines subì attacchi e bombardamenti[128]; a Loc Ninh e a "Rockpile" (un caposaldo e un'importante postazione di artiglieria dei marines[129]) gli attacchi vennero respinti; nella provincia di Kon Tum la manovra nordvietnamita diede origine all'aspra battaglia di Dak To (novembre 1967), che terminò, dopo scontri sanguinosi, con la ritirata nordvietnamita e dure perdite per entrambe le parti[130]. Infine a Khe Sanh iniziò il concentramento nemico contro la sperduta base dei marines, che si sarebbe trasformato in un vero assedio nel gennaio 1968[131].

Il generale William Westmoreland, comandante del MACV durante gli anni della escalation

Westmoreland interpretò queste operazioni nemiche come tentativi disperati di evitare la sconfitta e, quindi, organizzò massicci concentramenti di forze terrestri e aeree con cui respingere gli attacchi e infliggere ulteriori perdite[132]; i risultati tattici furono soddisfacenti e aumentarono ancora l'ottimismo del generale e della maggior parte degli osservatori, ma il logoramento e il numero dei caduti americani raggiunsero livelli ormai preoccupanti (oltre 11 000 soldati morti solo nel 1967[120]).

Marines statunitensi impegnati nel rastrellamento di un villaggio durante l'operazione Georgia nel 1966

All'interno della stessa amministrazione statunitense si verificarono i primi grossi contrasti e le prime defezioni e lo stesso segretario alla difesa McNamara manifestò le sue preoccupazioni e finì per dimettersi alla fine del 1967[133]; altri invece continuarono a mostrare ottimismo e fiducia sull'esito della guerra e sostennero con fermezza la necessità di continuare con vigore le operazioni. Il 12 ottobre 1967 il segretario di Stato Dean Rusk dichiarò che le proposte del Congresso per un'iniziativa di pace erano futili, a causa dell'intransigenza del nemico. Precedenti tentativi di Johnson, nel 1966 e 1967, di organizzare una tregua e i primi colloqui di pace erano rapidamente naufragati di fronte alla rigidità delle due parti in lotta[134].

Johnson, sempre più preda di dubbi e foschi presentimenti[135], tenne durante questi anni di escalation continue riunioni e consultazioni con esperti, consiglieri e militari alla ricerca di supporti alla sua politica e anche di nuove vie di uscita dalla complessa situazione[136]. Il 2 novembre, in una riunione segreta, con un gruppo dei più prestigiosi uomini della nazione ("i saggi"), il presidente chiese suggerimenti per riunire il popolo statunitense attorno allo sforzo bellico. I "saggi" consigliarono in primo luogo di fornire rapporti più ottimistici sul progredire della guerra[137].

Quindi, basandosi sui rapporti che gli vennero consegnati il 13 novembre, Johnson disse alla nazione, il 17 novembre, che mentre molto rimaneva da fare, «stiamo infliggendo perdite più pesanti di quelle che subiamo [...] Stiamo facendo progressi». Pochi giorni dopo, il generale Westmoreland, di ritorno negli Stati Uniti per consultazioni con il presidente, alla fine di novembre disse ai cronisti: «Abbiamo raggiunto un punto importante, dal quale si incomincia a intravedere la fine»[138]. Due mesi dopo, l'offensiva del Têt avrebbe clamorosamente smentito queste affermazioni.

Forze statunitensi bombardano con del napalm delle posizioni Viet Cong nel 1965

L'offensiva del Têt

Lo stesso argomento in dettaglio: Offensiva del Têt.

Assedio a Khe Sanh

Lo stesso argomento in dettaglio: Assedio di Khe Sanh e Base militare di Khe Sanh.

Fin dall'8 gennaio 1968 aveva avuto inizio l'assedio della base isolata dei marines di Khe Sanh; lungi dal rinunciare alla lotta o da ridurre la portata delle operazioni, le forze nordvietnamite avevano effettuato un minaccioso concentramento offensivo intorno alla base, apparentemente allo scopo di ottenere una nuova Dien Bien Phu con cui costringere gli americani a cedere[139].

Per due mesi il presidente Johnson e il generale Westmoreland concentrarono grandi forze terrestri e aeree al nord (venne costituito un nuovo "Provisional corps, Vietnam", per aiutare i marines con elementi della 1ª divisione cavalleria aerea, della 101ª aviotrasportata e della Americal Division) per contrastare gli apparenti obiettivi nemici, evitare una sconfitta campale ed esorcizzare lo spettro di Dien Bienh Phu[140]. Dal punto di vista militare, i nordvietnamiti non riuscirono a ottenere i loro obiettivi tattici né a costringere alla resa la base dei marines e, al contrario, subirono grosse perdite da parte dell'aviazione americana. Westmoreland poté sbandierare la "vittoria" (sblocco della guarnigione l'8 aprile con l'operazione Pegasus)[141], ma in realtà ancora oggi non sono chiari i veri obiettivi nordvietnamiti e, inoltre, il concentramento effettuato al nord per proteggere Khe Sanh sicuramente indebolì le forze americane negli altri settori e ingannò i comandi statunitensi, favorendo la sorpresa iniziale dell'offensiva del Têt, che ebbe inizio il 30 gennaio 1968[142].

L'attacco di sorpresa durante il Têt

La fede dell'opinione pubblica nella "luce alla fine del tunnel"[143], ripetutamente sostenuta dai roboanti proclami dei comandi e delle autorità americane, venne frantumata, il 30 gennaio 1968, dall'inaspettata offensiva generale sferrata dal nemico, dipinto come prossimo al collasso[144], alla vigilia della festività del Têt (il Tết Nguyên Ðán, l'anno nuovo lunare, la più importante festività vietnamita).

L'offensiva del Têt, sferrata da quasi 70 000 combattenti Viet Cong e nordvietnamiti[145], si estese fulmineamente sulla maggior parte dei centri abitati e delle regioni più popolate del Vietnam del Sud, ottenendo un grosso effetto sorpresa e sconvolgendo, in un primo momento, la catena di comando alleata e i suoi apprestamenti difensivi. Vennero attaccati i grandi centri costieri, come Đà Nẵng, Quy Nhơn e Hội An e le città collinari, come Pleiku, Kon Tum, Ban Mê Thuôt, Da Lat; i comunisti occuparono gran parte delle capitali provinciali e delle sedi distrettuali nel delta del Mekong. Venne bombardata la grande base americana di Cam Ranh; le forze regolari nordvietnamite irruppero dentro l'antica capitale Huế, riuscendo a conquistare la cittadella fortificata e asserragliandosi sulle posizioni conquistate (dove successivamente vennero trovate le fosse comuni con i corpi degli oppositori al regime nordvietnamita[146]); soprattutto, i Viet Cong scatenarono uno spettacolare attacco a sorpresa contro la stessa Saigon[147].

Quasi 40 000 combattenti Viet Cong attaccarono la capitale e i centri di comando periferici di Biên Hòa, Tan Son Nhut (sede del MACV del generale Westmoreland), Loc Binh (sede del comando della II Field Force, Vietnam del generale Weyand)[148]; la stessa ambasciata statunitense venne colpita e fu salvata solo dopo scontri sanguinosi contro alcune squadre suicide nemiche. La battaglia dentro Saigon fu particolarmente violenta: le forze Viet Cong agirono di sorpresa, divise in squadre supportate da elementi già infiltrati in precedenza; la reazione statunitense si scatenò violenta con l'impiego di una grande potenza di fuoco[149]. Dopo molte ore di battaglia l'attacco finì per essere respinto e la maggior parte degli assalitori venne eliminata (a volte con metodi sommari[150]). Nonostante il fallimento finale a Saigon, la violenza e la temerarietà dell'attacco sconcertarono i comandi e le truppe alleate e sconvolsero l'opinione pubblica statunitense in patria[151].

Sul campo, dopo il primo momento di sorpresa e confusione, le forze statunitensi e anche i reparti sudvietnamiti (che non crollarono come auspicato dai dirigenti comunisti, ma riuscirono invece a sostenere gli scontri) contrattaccarono con efficacia; invece di ritirarsi, i reparti Viet Cong spesso cercarono di resistere e nella maggior parte dei casi vennero sconfitti o distrutti. Tutti i grandi centri vennero rapidamente riconquistati dalle truppe alleate[152]; le forze vietnamite subirono gravi perdite e la situazione venne ristabilita entro pochi giorni, tranne nel caso dalla battaglia di Huế, che durò alcuni mesi.

Nella cittadella dell'antica città rimasero abbarbicati per molti giorni numerosi e combattivi reparti nordvietnamiti, che resistettero strenuamente alla controffensiva delle forze alleate; alcuni battaglioni di marines dovettero impegnarsi in sanguinosi ed estenuanti scontri urbani casa per casa in quella che forse fu la battaglia più dura e cruenta di tutta la guerra[153]. Gli statunitensi, dopo alcune settimane di aspri combattimenti ravvicinati, finirono per aver ragione delle truppe nemiche e riconquistarono la cittadella di Huế, che venne completamente devastata a causa della violenza degli scontri[154] e dell'impiego da parte statunitense dell'aviazione e del fuoco delle navi da guerra ancorate al largo. Quando la città venne ripresa dai sudvietnamiti, vennero scoperte fosse comuni con numerosi cadaveri di oppositori ai nord vietnamiti[40].

Anche se in nessuna località le forze insurrezionali comuniste conseguirono un reale successo né raggiunsero dei concreti obiettivi militari (ma al contrario finirono per subire perdite molto ingenti) e anche se il Vietnam del Sud non crollò come auspicato dalla dirigenza di Hanoi, la sorprendente capacità di un nemico ormai dato per sconfitto di riuscire semplicemente a lanciare una simile offensiva generale convinse molti statunitensi che la vittoria era impossibile[155]. L'offensiva del Têt provocò quindi un rovinoso crollo della credibilità del generale Westmoreland, dei dirigenti americani e dello stesso presidente Johnson, che da parte sua rimase sconcertato e quasi sconvolto dalla vastità e dalla temerarietà dell'attacco nemico[156].

Soldati nordvietnamiti all'attacco in massa

Di conseguenza, l'offensiva del Têt segnò un punto di svolta decisivo della guerra, se non dal punto di vista militare, senza dubbio da quello politico-morale; di fronte alle nuove ingenti richieste di truppe provenienti dal generale Westmoreland (oltre 200 000 soldati[157]), il presidente Johnson, dopo una serie di frenetiche riunioni e colloqui e su consiglio del nuovo segretario alla difesa Clark Clifford, decise di dare una svolta radicale al conflitto[158].

Le richieste di Westmoreland vennero respinte (e lo stesso generale venne sostituito nel giugno 1968); vennero inviate solo due nuove brigate da combattimento (la 3ª brigata dell'82ª divisione aviotrasportata e la 1ª brigata della 5ª divisione fanteria, che portarono il totale delle forze americane in Vietnam a 540 000 uomini[159]) e il presidente Johnson, in un drammatico discorso alla nazione il 31 marzo, annunciò la sua rinuncia a ricandidarsi alla presidenza e la sua decisione di non proseguire con la escalation, ma viceversa di fare i primi passi per ridurre l'intensità della guerra aerea e terrestre e per intraprendere colloqui di pace con la controparte[160].

Nei mesi seguenti, mentre peraltro in Vietnam continuavano duri scontri, nuove offensive americane e pericolosi attacchi delle forze comuniste (in maggio – il mese con il più alto numero di caduti americani di tutta la guerra con 2412 soldati morti[161] - il FLN sferrò una nuova offensiva generale che venne subito denominata Mini-Têt). Ebbero quindi inizio a Parigi i colloqui di pace (13 maggio 1968); infine, il 31 ottobre, il presidente Johnson, ormai alla fine del suo mandato, annunciò alla nazione che aveva ordinato una completa cessazione di "tutti i bombardamenti aerei, navali e di artiglieria sul Vietnam del Nord", effettiva dal 1º novembre[162], in cambio del tacito assenso nordvietnamita alla cessazione degli attacchi attraverso la zona smilitarizzata e contro le grandi città del Vietnam del Sud[163].

Il 1968, quindi, si concluse con un sostanziale cambiamento della situazione: le forze statunitensi avevano subito dure perdite (oltre 14 000 uomini nell'arco dell'anno[164]), i bombardamenti sul Vietnam del Nord erano cessati, la dirigenza americana aveva rinunciato alla vittoria militare e avevano avuto inizio complessi e difficili colloqui di pace tra le parti in causa.

Opposizione alla guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Opposizione alla guerra del Vietnam.
«Quando il dissenso diventa violenza, si trasforma in tragedia.[165]»

(Dichiarazione del portavoce ufficiale del presidente Richard Nixon, Ron Ziegler, per giustificare le violenze delle autorità durante gli incidenti alla Kent State University il 4 maggio 1970)

Le proteste universitarie e la renitenza alla leva

Lo stesso argomento in dettaglio: Sparatoria della Kent State.

L'opposizione alla guerra iniziò fin dal 1964 nei campus delle università. Si trattava di un periodo storico caratterizzato da attivismo politico studentesco di sinistra senza precedenti e dall'arrivo all'età dell'università della numerosa generazione dei cosiddetti "baby boomers"[166]. La crescente opposizione alla guerra è certamente attribuibile in parte anche al più ampio accesso alle informazioni sul conflitto, soprattutto grazie all'estesa copertura televisiva.

Proteste davanti al Pentagono il 21 ottobre 1967

Migliaia di giovani statunitensi scelsero la fuga in Canada o in Europa occidentale piuttosto che rischiare la coscrizione. A quel tempo solo una frazione di tutti gli uomini in età di leva veniva effettivamente chiamata alle armi; gli uffici del sistema di reclutamento, in ogni località, avevano ampia discrezionalità su chi arruolare e chi dispensare, in quanto non c'erano delle linee guida chiare per l'esonero[167].

Allo scopo di guadagnarsi l'esenzione o il rinvio del servizio militare, molti ragazzi scelsero di frequentare l'università, il che permetteva di ottenere l'esonero al compimento del 26º anno di età; alcuni si sposarono, il che rimase motivo di esenzione per tutto il corso della guerra. Altri trovarono dei medici accondiscendenti che certificarono le basi mediche per un'esenzione "4F" (inadeguatezza mentale), anche se i medici dell'esercito potevano dare, e davano, un loro giudizio. Altri ancora si unirono alla Guardia Nazionale, come sistema per evitare il Vietnam. Tutte queste questioni sollevarono preoccupazioni sull'imparzialità con cui le persone venivano scelte per un servizio non volontario, in quanto toccava spesso ai poveri, ai membri delle minoranze etniche (neri e ispanici erano in effetti percentualmente predominanti nei reparti operativi da combattimento) o a quelli che non avevano appoggi influenti essere arruolati[168].

Gli arruolati stessi iniziarono a protestare quando, il 15 ottobre 1965, l'organizzazione studentesca "Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam" inscenò la prima manifestazione pubblica negli Stati Uniti in cui vennero bruciate le cartoline di leva.

Il dibattito nell'opinione pubblica

L'opinione pubblica statunitense si divise nettamente sul problema della guerra. Molti sostenitori della guerra ritenevano corretta quella che era conosciuta come la "teoria del domino", enunciata per la prima volta dal presidente Eisenhower in una conferenza stampa il 7 aprile 1954[169]. Essa sosteneva che, se il Vietnam del Sud avesse ceduto alla guerriglia comunista, altre nazioni, principalmente nel sud-est asiatico, sarebbero cadute in rapida successione, come pezzi del domino. Alcuni militari critici verso la guerra puntualizzarono che il conflitto era politico e che la missione militare mancava di obiettivi chiari. I critici civili argomentarono che il governo del Vietnam del Sud mancava di legittimazione politica e morale[170]. George Ball, sottosegretario di stato del presidente Johnson, fu una delle voci solitarie dell'amministrazione a manifestare dubbi e timori sul coinvolgimento in Vietnam.

Alcune clamorose manifestazioni autodistruttive di dissenso da parte di pacifisti (il 2 novembre 1965 il trentaduenne quacchero Norman Morrison si diede fuoco davanti al Pentagono e il 9 novembre il ventiduenne cattolico Roger Allen LaPorte fece lo stesso davanti al palazzo delle Nazioni Unite, ad imitazione dei gesti dei monaci buddisti in Vietnam) portarono alla luce il disagio morale presente in alcuni strati dell'opinione pubblica statunitense[171]. Il crescente movimento pacifista allarmò molti all'interno del governo statunitense e ci furono tentativi, peraltro falliti, di istituire una legislazione punitiva di queste presunte "attività antiamericane".

Dimostrazione contro la guerra in Vietnam

Molti americani si opposero alla guerra per questioni morali, vedendola come un conflitto distruttivo contro l'indipendenza vietnamita o come un intervento in una guerra civile straniera; altri invece si opposero per l'evidente mancanza di obiettivi chiari e per l'impossibilità di ottenere la vittoria. Alcuni pacifisti erano essi stessi veterani del Vietnam, come evidenziato dall'organizzazione "Veterani del Vietnam contro la guerra"[172]. Alcuni soldati denunciarono le violenze contro i civili - come il massacro di My Lai - suscitando l'indignazione dell'opinione pubblica; anche drammatici reportage giornalistici alimentarono l'opposizione alla guerra. Nonostante le notizie sempre più deprimenti sulla guerra, molti statunitensi continuarono ad appoggiare gli sforzi del presidente Johnson. A parte la teoria del domino, era diffuso il sentimento che impedire il sovvertimento del governo filo-occidentale sudvietnamita da parte dei comunisti fosse un obiettivo nobile.

Molti statunitensi erano anche preoccupati di "salvare la faccia" in caso di un disimpegno dalla guerra o, come venne successivamente detto da Nixon, "ottenere la pace con onore"[155]. Molti degli oppositori alla guerra del Vietnam erano visti all'epoca, e sono visti tuttora, più come sostenitori dei nordvietnamiti e dei Viet Cong che come contrari alla guerra in quanto tale; il più famoso di questi fu l'attrice Jane Fonda. Molti dei contestatori vennero accusati di "disprezzare i soldati del proprio paese impegnati in Vietnam" dopo il loro ritorno[173]; comunque, la validità di queste accuse rimane ampiamente controversa.

L'elezione di Richard Nixon

Le elezioni presidenziali statunitensi del 1968 furono tra le più turbolente della storia degli Stati Uniti, costellate di manifestazioni di protesta, di scontri e gravi sommosse (come durante la convenzione democratica di Chicago),[174] di attentati e omicidi (il 6 giugno 1968 il palestinese Sirhan B. Sirhan assassinò Robert Kennedy, possibile candidato pacifista del Partito Democratico, in protesta al sostegno per Israele del giovane Kennedy). Dopo la clamorosa rinuncia di Johnson del 31 marzo il Partito Democratico, profondamente diviso sul problema della guerra del Vietnam, finì per candidare il vicepresidente Hubert Humphrey, fedele continuatore della politica di Johnson[175], mentre i repubblicani ripresentarono Richard Nixon, tornato alla ribalta dopo una serie di sconfitte elettorali[176]. Le elezioni furono vinte di stretta misura proprio da Nixon, che durante la campagna elettorale aveva misteriosamente fatto trapelare la notizia di un suo "piano segreto" sul Vietnam studiato per evitare la sconfitta e raggiungere una pace favorevole[177]; in realtà in quel momento non esisteva alcun piano segreto e solo dopo la sua elezione Nixon avrebbe cominciato ad affrontare concretamente l'esasperante e intricato problema vietnamita.

La "vietnamizzazione" e le fasi finali

«Non sarò il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra.[178]»

(Dichiarazione di Richard Nixon, nuovo presidente degli Stati Uniti)

«Non posso credere che una potenza di quarto ordine come il Vietnam del Nord non abbia un punto debole.[179]»

(Henry Kissinger rivolto al suo staff di collaboratori nel settembre 1969)

Un'immagine del tragico massacro di My Lai

La "Dottrina Nixon"

Lo stesso argomento in dettaglio: Dottrina Nixon.

Con la presidenza di Richard Nixon, personalità complessa e contraddittoria[180], fin dall'inizio venne elaborata ed attuata una nuova strategia globale statunitense - detta "dottrina Nixon" - per la guerra in Indocina, basata su una realistica valutazione della situazione locale e internazionale e su una spregiudicata applicazione di nuovi programmi diretti a evitare in ogni caso la sconfitta finale degli Stati Uniti[177].

Coadiuvato da abili collaboratori, come Henry Kissinger[181], consigliere per la sicurezza nazionale, e Melvin Laird, nuovo segretario alla difesa, Nixon accettò in primo luogo l'ormai acquisita impossibilità, per ragioni tattico-operative e di politica interna, di ottenere una vittoria militare[177] e, quindi, ripiegò su una politica pur sempre basata principalmente sulla forza, ma più accorta e segreta, i cui cardini furono:

  • l'impiego massiccio e continuato delle forze aeree in bombardamenti segreti[182], quindi non divulgati all'opinione pubblica per non rischiare ulteriori divisioni e proteste, su Laos e Cambogia per intralciare e interdire il rafforzamento nemico nel Vietnam del Sud;
  • risparmiare vite dei soldati, rinunciando alle inutili e costose offensive di "ricerca e distruzione" e impegnare, invece, le forze in attacchi mirati su aree particolarmente strategiche e in compiti protettivi per rallentare l'aggressività nemica e dare tempo alle forze sudvietnamite di rafforzarsi[183];
  • adottare tattiche di "guerra segreta" e terrorismo interno per individuare e distruggere capillarmente gli elementi Viet Cong e filocomunisti infiltrati al sud (cosiddetto "programma Phoenix"[184]);
  • ampliare e potenziare i programmi di pacificazione e di riforma economica nelle campagne sudvietnamite per suscitare il sostegno della popolazione al governo del Vietnam del Sud (incremento e miglioramento delle attività del cosiddetto CORDS (Civil Operations e Rural Development Support), la complessa struttura civile affiancata ai militari fin dal 1967, per sviluppare i piani di riforma politico-economica, guidata da abili funzionari come Robert Komer e William Colby)[185];
  • intraprendere un'audace "diplomazia segreta" con la Cina e l'Unione Sovietica, offrendo un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti in cambio di una sospensione, o almeno una riduzione, dell'appoggio politico militare fornito da questi paesi al Vietnam del Nord (concetto del "vincolo"[186]);
  • organizzare sedute segrete di trattative con la controparte nordvietnamita, al di fuori delle infruttuose riunioni plenarie di Ginevra, che si trascinavano da mesi senza risultati[187], in cui le capacità di Henry Kissinger sarebbero state impiegate per costringere finalmente i diplomatici del Vietnam del Nord ad accettare un compromesso[188] (eventualmente con la minaccia di "apocalittiche" ritorsioni militari incluse nella cosiddetta "teoria del pazzo"[177]);
  • programmare il lento e graduale ritiro delle forze combattenti dal Vietnam, distribuito su vari anni e accuratamente studiato per dar tempo al Vietnam del Sud di consolidarsi;
  • rafforzare con massicce forniture di armi l'esercito del Vietnam del Sud fino a renderlo in grado progressivamente di assumere da solo la condotta delle operazioni e di sostenere saldamente l'"aggressione" (politica della vietnamizzazione del conflitto[189]).

Questo complesso e articolato programma politico-militare venne quindi messo in atto gradualmente a partire dal gennaio 1969, ma venne presto intralciato, e in parte compromesso, da nuove difficoltà impreviste, da improvvise contingenze sul campo, da nuovi ostacoli interni e internazionali, da comportamenti contraddittori dello stesso presidente Nixon e anche da un ulteriore incremento delle proteste pubbliche negli Stati Uniti, che condussero a una crisi interna senza precedenti nella storia della democrazia statunitense nel XX secolo[190].

L'estensione della guerra in Laos e Cambogia

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile in Cambogia e Guerra civile in Laos.

Sul campo di battaglia, inizialmente il capace generale Creighton Abrams, nuovo responsabile del MACV al posto di Westmoreland (sostituito nella primavera del 1968), continuò con risultati sconfortanti (battaglia di Hamburger Hill) le grandi operazioni offensive degli anni precedenti[191]; di fronte alle dure perdite subite (in febbraio-marzo 1969) dopo che le forze comuniste intrapresero una nuova offensiva durante il Têt, che inflisse nuove perdite agli statunitensi[192] e diede pretesto all'amministrazione Nixon di dare il via ai bombardamenti segreti sulla Cambogia (operazione Menu)[193]. In ottemperanza alle esigenze politico-propagandistiche di Nixon, il generale Abrams, dopo gli incontri di Guam del luglio 1969, dovette quindi adottare la nuova strategia della riduzione degli impegni operativi dei soldati statunitensi e di passaggio a posizioni difensive[194].

Il presidente Richard Nixon illustra alla stampa lo svolgimento della controversa incursione in Cambogia dell'aprile 1970

Abrams dovette inoltre programmare un ritiro totale delle forze combattenti, scaglionato in 14 fasi su quattro anni (programma One War). Il primo ritiro di 25 000 uomini ebbe inizio nella seconda metà del 1969 e le forze americane si ridussero, quindi, da 543 000 (numero massimo della primavera 1969) a meno di 500 000 alla fine dell'anno[195].

Nel frattempo, dall'agosto 1969 Kissinger aveva intrapreso i primi colloqui segreti con la controparte nordvietnamita (prima Xuan Thuy e quindi dal febbraio 1970 Lê Đức Thọ); durante gli snervanti e interminabili colloqui Kissinger ebbe modo di apprezzare l'abilità e la tenacia del suo interlocutore, ma anche queste sedute segrete finirono per trascinarsi per anni senza risultati soddisfacenti per gli statunitensi, messi di fronte all'intransigenza nordvietnamita[196].

Negli Stati Uniti le proteste pubbliche contro la guerra, invece di ridursi come auspicato da Nixon, aumentarono continuamente di fronte alla divulgazione di clamorose notizie riservate sulla guerra[197] (come i cosiddetti Pentagon Papers)[198], alla persistenza dei combattimenti, alla sterilità dei colloqui di pace, alle continue perdite di soldati in un conflitto ormai ritenuto inutile e immorale. Il 15 ottobre e il 15 novembre 1969 si svolsero a Washington le prime gigantesche manifestazioni di protesta contro la guerra (le cosiddette "moratorie")[199].

Nixon, estremamente irritato da questi eventi interni, fece appello in un famoso discorso televisivo alla cosiddetta "maggioranza silenziosa"[200] e riuscì momentaneamente a radunare un certo consenso alla sua politica di lenta ricerca di soluzioni politico-militari soddisfacenti per la potenza statunitense, ma ulteriori complicazioni in Cambogia e Laos produssero un'inaspettata nuova escalation sul campo di battaglia e di conseguenza nuove tragiche esplosioni di proteste pubbliche negli Stati Uniti. Di fronte all'instabilità politica in Cambogia dopo la destituzione del sovrano Norodom Sihanouk e l'assunzione del potere del generale Lon Nol, Nixon, in accordo con Kissinger[201] e sollecitato anche da Abrams e altri consiglieri militari a dare una dimostrazione di potenza militare per confortare il debole e corrotto governo sudvietnamita di Van Thieu, decise di mostrare la determinazione americana nell'ottenere risultati militari decisivi con la distruzione delle strutture di comando e logistiche nemiche al riparo nel vicino paese confinante, venendo allo scoperto e, a partire dal 30 aprile 1970[202], cominciò a rendere pubblici alcuni interventi fatti in Cambogia, in relazione alla guerra civile che stava iniziando in quello Stato asiatico, e nell'altro paese confinante attraversato dal Sentiero di Ho Chi Minh, il Laos, dove la guerra civile si stava combattendo già da tempo e coinvolgeva dal 1965 l'aviazione statunitense.

Veicoli corazzati del tipo M113 in azione

I risultati sul campo furono in apparenza soddisfacenti, ma come sempre del tutto transitori (anche se forse rallentarono per qualche mese il rafforzamento nemico al confine con il Vietnam del Sud). In realtà le incursioni contribuirono ad indebolire ulteriormente il fragile paese cambogiano, indussero i nordvietnamiti a rafforzare il loro impegno diretto nella regione e forse innescarono anche la sollevazione dei Khmer rossi[203]. Nell'immediato l'inaspettato incremento delle operazioni attive statunitensi, dopo tante assicurazioni pubbliche su ritiri e vietnamizzazioni, fece esplodere proteste senza precedenti negli Stati Uniti, culminate tragicamente il 4 maggio 1970 dai sanguinosi incidenti alla Kent State University[204].

La venuta alla luce, fin dal 1969, del caso della strage di civili di My Lai da parte dei soldati guidati dal tenente William Calley, un capoplotone in Vietnam, rinfocolò le polemiche sulla legittimità della guerra e sul comportamento e la saldezza morale dei soldati statunitensi[205]. Di fronte a questi eventi Nixon dovette rapidamente sospendere le operazioni attive in Cambogia, presentare nuove e confuse proposte di "cessate il fuoco con tregua"[206] e, soprattutto, incrementare massicciamente il ritiro delle proprie forze (scese a 280 000 uomini alla fine del 1970[207]). Peraltro in questa fase si assistette a una notevole caduta del morale e della disciplina tra le forze combattenti statunitensi ancora presenti in Vietnam[208]: senza prospettive concrete di vittoria, con nuovi impegni operativi, con continue perdite (negli anni di Nixon morirono oltre 21 000 soldati statunitensi, circa il 40% del totale di tutta la guerra[209]) e alcuni sanguinosi scacchi (battaglie delle basi di fuoco Ripcord e Mary Ann[210]), i soldati americani mostrarono atteggiamenti di opposizione alla guerra e di frustrazione[211] che ne ridussero la combattività, imponendo un'accelerazione del ritiro nonostante l'insoddisfacente rafforzamento dell'esercito sudvietnamita.

Il ritiro delle forze statunitensi e l'offensiva di Pasqua

Lo stesso argomento in dettaglio: Offensiva di Pasqua.

In realtà la politica della vietnamizzazione, nel corso dei vari anni, non era stata del tutto priva di risultati positivi: grazie al successo del programma Phoenix e all'indebolimento delle strutture Viet Cong nelle campagne, la sicurezza nei villaggi e il consenso nei confronti del governo di Saigon erano aumentati in modo significativo; i programmi di sviluppo economico ottennero un certo successo (nonostante la persistente corruzione del governo sudvietnamita) e le forze statunitensi poterono essere ridotte senza provocare un crollo immediato del Vietnam del Sud. Anche le forze comuniste avevano subito grosse perdite e rallentarono i loro attacchi in attesa dei necessari rafforzamenti[212].

Lê Đức Thọ, responsabile politico della guerra in Vietnam del Sud e principale negoziatore a Parigi

Infine, l'audace diplomazia segreta di Nixon e Kissinger con Mosca e Pechino del 1971 e 1972 ottenne alcuni eccellenti risultati propagandistici ed effettivamente allentò il sostegno di questi due paesi[213], desiderosi di un riavvicinamento con gli Stati Uniti, al Vietnam del Nord: quest'ultimo, tuttavia, guidato dopo la morte di Ho Chi Minh il 3 settembre 1969 da capi intransigenti come Lê Duẩn e Phạm Văn Đồng, mantenne la sua indipendenza strategica e persistette nei suoi obiettivi politici generali, indipendentemente dalle sollecitazioni alla moderazione cinesi o sovietiche[214].

Nonostante questi successi della politica di Nixon, la fallimentare offensiva in Laos sferrata nel febbraio 1971 dall'esercito sudvietnamita (senza appoggio diretto statunitense, in conseguenza delle limitazioni stabilite dal Congresso dopo gli eventi cambogiani dell'anno prima[215]), considerata una prova dello sbandierato successo della vietnamizzazione e conclusasi con una disastrosa ritirata[216], dimostrò ancora una volta la fragilità della situazione e il ruolo sempre determinante del sostegno militare americano (in questa fase in costante decremento: alla fine del 1971 le truppe statunitensi in Vietnam scesero a 140 000 uomini[207]).

Il sostegno dell'aviazione statunitense fu ancora decisivo nella primavera 1972, quando l'esercito nordvietnamita sferrò una grande offensiva generale sperando di provocare il crollo definitivo del regime di Saigon e di costringere i loro alleati a cedere; l'offensiva di Pasqua terminò, dopo alcuni duri combattimenti, con un fallimento complessivo nordvietnamita[217]. Il governo sudvietnamita non crollò e l'esercito si batté coraggiosamente, supportato da un impiego senza precedenti dell'USAF[218]. Nixon, timoroso di un cedimento generale, decise di riprendere i bombardamenti sul Vietnam del Nord, interrotti da Johnson fin dal novembre 1968:[219] le incursioni Linebacker di USAF e US Navy, lanciate a partire dall'8 maggio 1972, furono molto pesanti e indebolirono certamente le forze nemiche; anche il porto di Haiphong venne minato[220]. L'offensiva di Pasqua si concluse quindi con un insuccesso nordvietnamita e Nixon e Kissinger poterono riprendere i loro sforzi, nei colloqui con i diplomatici nordvietnamiti, alla ricerca di un accordo onorevole per raggiungere la "pace con onore"[221].

La tregua del 1972, la caduta di Saigon e la fine della guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione Linebacker II e Caduta di Saigon.
Guerrigliero Viet Cong armato di AK-47 nel 1973, durante i lavori della Four Power Joint Military Commission

Le ultime fasi dei colloqui di pace furono particolarmente confuse: Kissinger finì per accettare la maggior parte delle richieste nordvietnamite[222] (soprattutto accettò il cruciale mantenimento delle forze regolari nordvietnamite presenti al sud, al contrario del previsto ritiro totale statunitense)[223]; Van Thieu si oppose strenuamente a questo tipo di accordo, considerato la premessa della catastrofe[224].

A ottobre 1972 l'accordo di pace sembrò imminente: Kissinger parlò di "pace a portata di mano"[207] e queste notizie confortanti contribuirono alla schiacciante vittoria elettorale di Nixon nelle elezioni presidenziali del novembre 1972 contro il candidato pacifista democratico George McGovern.

Un bombardiere pesante B-52 impegnato nei bombardamenti sul Vietnam del Nord durante l'Operazione Linebacker II

In realtà la situazione si complicò nuovamente alla fine dell'anno: i colloqui furono interrotti di nuovo a causa dell'intransigenza di Le Duc Tho e anche dell'ostruzionismo di Van Thieu[225]; nel tentativo di sbloccare drammaticamente la situazione, di dare un'ultima dimostrazione di forza militare e di rafforzare psicologicamente il regime di Saigon, Nixon decise il 18 dicembre 1972 di sferrare nuovi duri bombardamenti sul Vietnam del Nord con l'impiego in massa dei B-52[226]. I "bombardamenti di Natale" durarono undici giorni, soprattutto su Hanoi e Haiphong, e apparentemente indussero il Vietnam del Nord a ritornare al tavolo dei negoziati e accettare il compromesso[227]. A gennaio 1973 l'accordo era ormai in vista, i bombardamenti erano stati interrotti il 30 dicembre 1972; i soldati statunitensi ancora presenti in Vietnam erano scesi a meno di 50 000 uomini. La guerra terminò infine nel 1975 con la conquista di Saigon da parte dell'esercito del Vietnam del Nord, immediatamente preceduta dall'evacuazione dei civili statunitensi ancora presenti nella capitale del Vietnam del Sud.

Gli accordi di Parigi e la fine della guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Accordi di pace di Parigi (1973).
«Abbiamo finalmente raggiunto la pace con onore.[228]»

(Dichiarazione di Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, dopo la firma degli accordi di pace di Parigi nel gennaio 1973)

«Gli statunitensi non ritornerebbero nemmeno se gli offrissimo delle caramelle...[229]»

(Frase pronunciata dal primo ministro del Vietnam del Nord Phạm Văn Đồng a una riunione del governo di Hanoi nel gennaio 1975)

La firma degli accordi di pace di Parigi

L'amministrazione governativa americana aveva cercato di ritrarre le ostilità come una guerra di difesa democratica, inquadrata nell'ambito della guerra fredda, contro le forze dell'esercito nordvietnamita e le loro "creature" rivoltose, mentre i dirigenti nordvietnamiti propagandavano il conflitto come uno scontro patriottico di insorti sudvietnamiti del Fronte Nazionale di Liberazione, considerato una guerra d'indipendenza, contro gli alleati "fantoccio" dell'amministrazione statunitense. Queste contrapposte dichiarazioni propagandistiche vennero sfruttate nei primi colloqui di pace, nei quali il dibattito ruotò per oltre tre mesi - fino al 16 gennaio 1969 - attorno alla "forma del tavolo delle trattative",[230] nel quale ognuna delle parti cercava di rappresentare se stessa come entità distinta pienamente legittima opposta a una singola potenza contornata da governi "fantoccio". Gli accordi di pace di Parigi vennero infine firmati il 27 gennaio 1973, ponendo quindi ufficialmente termine all'intervento statunitense nel conflitto del Vietnam[231]. Il primo prigioniero di guerra statunitense venne rilasciato l'11 febbraio e il ritiro totale americano venne completato entro il 29 marzo[232]; il MACV (comandato dal 1972 dal generale Frederick Weyand) venne sciolto e sostituto con un modesto ufficio dipendente dall'ambasciata americana a Saigon. Al contrario, secondo gli accordi, le forze dell'esercito nordvietnamita già presenti in Vietnam del Sud poterono rimanere sul campo, inserendo in questo modo un elemento di debolezza e di fragilità strutturale nelle possibilità concrete di sopravvivenza del regime filoamericano di Van Thieu[233].

In realtà Nixon aveva assicurato ripetutamente il massiccio sostegno militare a Saigon in caso di una rottura degli accordi e di una nuova aggressione delle forze comuniste, ma poi concretamente le circostanze della politica statunitense vanificarono qualsiasi promessa ed influirono sugli sviluppi finali della guerra del Vietnam[234]: in primo luogo il Congresso votò contro ogni ulteriore sovvenzionamento dell'azione militare nella regione e a favore di una limitazione dei poteri del presidente di intraprendere avventure militari all'estero; in secondo luogo, soprattutto, Nixon stava ormai lottando disperatamente per la sua sopravvivenza politica e morale, di fronte al continuo aggravarsi dello scandalo Watergate[235]. Di conseguenza il sostegno statunitense e i promessi aiuti non si materializzarono mai se non in piccola parte, cosicché il governo di Saigon, sempre più fragile e instabile, venne progressivamente abbandonato al suo destino[236].

Le conseguenze

La campagna di Ho Chi Minh e l'unificazione del Vietnam

Lo stesso argomento in dettaglio: Campagna di Ho Chi Minh.

Anche se limitati aiuti economici continuarono ad arrivare, la maggior parte venne dissipata da elementi corrotti del governo della Repubblica del Vietnam, e poco venne effettivamente impiegato per rafforzare il dispositivo militare del Vietnam del Sud[237]. Il Congresso statunitense, alla fine, votò un taglio totale di tutti gli aiuti, a partire dall'inizio dell'anno fiscale 1975-76 (1º luglio 1975). Allo stesso tempo gli aiuti militari al Vietnam del Nord da parte di Unione Sovietica e Cina furono invece incrementati, di fronte all'indebolimento politico di Nixon e agli sviluppi della situazione complessiva ormai chiaramente favorevoli alle forze comuniste[238].

Soldati regolari dell'esercito norvietnamita durante la vittoriosa campagna del 1975

All'inizio del 1975 il Vietnam del Nord, dopo alcune discussioni tra i vari dirigenti politico-militari sui tempi e la modalità dell'attacco e su sollecitazione soprattutto del comandante Tran Van Tra[239], scatenò l'offensiva finale venendo meno agli accordi di Parigi e invase il sud (campagna di Ho Chi Minh); l'esercito sudvietnamita si disgregò e, nonostante un'ultima coraggiosa resistenza a Xuan Loc, crollò di fronte alle superiori forze nordvietnamite, comandate dal generale Văn Tiến Dũng[240]. Dopo un'avanzata trionfale, scarsamente contrastata e la fuga in massa della popolazione[40], l'esercito nordvietnamita circondò la capitale con un imponente schieramento di forze ed entrò a Saigon il 30 aprile 1975 (caduta di Saigon); i soldati di Hanoi issarono la bandiera Viet Cong sul famoso palazzo presidenziale nel centro cittadino (definito dalla propaganda comunista per tanti anni "palazzo del presidente fantoccio", attualmente denominato "palazzo della riunificazione")[241].

Il personale statunitense ancora presente nella capitale venne evacuato con una disperata operazione di salvataggio con elicotteri[242]; in precedenza il nuovo presidente Gerald Ford aveva pubblicamente dichiarato il disinteresse statunitense per le nuove e drammatiche vicende belliche[243]. La guerra del Vietnam si concluse quindi con la vittoria totale delle forze comuniste in tutta la regione indocinese e con il completo fallimento politico e militare americano.

Il Vietnam del Sud fu annesso al Vietnam del Nord il 2 luglio 1976, per formare la Repubblica Socialista del Vietnam; Saigon venne ribattezzata Ho Chi Minh, in onore dell'ex presidente nordvietnamita. Centinaia di sostenitori del governo sudvietnamita vennero arrestati e giustiziati: si stima che almeno un milione di vietnamiti vennero spediti in campi di "rieducazione", dove trovarono la morte circa 165 000 persone[244], e altre migliaia furono violentate, torturate e brutalmente uccise[244]; negli anni seguenti più di due milioni di vietnamiti cercarono di abbandonare il paese via mare su imbarcazioni di fortuna e durante la fuga trovarono la morte un gran numero di persone con stime che vanno dalle 30 000 alle 250 000.[245][246]

I riflessi nella società e nella politica negli USA

Naturalmente l'esito del conflitto intaccò la reputazione degli Stati Uniti come prima superpotenza mondiale. Le massicce perdite americane, la mancanza di una vittoria decisiva e un'efficace propaganda disfattista da parte di contestatori politicizzati crearono un grande disgusto dell'opinione pubblica nei confronti dell'interventismo armato per contenere l'espansionismo sovietico-comunista. Politicamente, l'insufficiente pianificazione della guerra, la confusione delle direttive e della catena di comando e, soprattutto, la discrezione del potere esecutivo presidenziale, portarono il congresso degli Stati Uniti d'America a rivedere il modo in cui gli Stati Uniti possono dichiarare guerra. A causa degli sviluppi della guerra del Vietnam, il Congresso promulgò la risoluzione sui poteri di guerra (7 novembre 1973)[247], che ridusse la capacità del presidente di impegnare truppe in azione senza aver prima ottenuto l'approvazione del Congresso stesso. Dal punto di vista sociale, la guerra mutò sensibilmente il pensiero di molti giovani statunitensi, dimostranti e soldati bilateralmente, mutando le loro opinioni riguardo alla politica estera adottata dal governo e la moralità del conflitto. Infine la guerra del Vietnam dimostrò come l'opinione pubblica potesse influenzare la politica del governo, attraverso la mobilitazione e la protesta; un esempio di ciò fu l'abolizione della leva obbligatoria a partire dal 1973.[248] Il 21 gennaio 1977 il nuovo presidente statunitense Jimmy Carter, continuando la sua politica di riconciliazione nazionale, graziò praticamente tutti quelli che si erano sottratti alla coscrizione per la guerra.[249]

La guerra e le sue conseguenze portarono a una massiccia emigrazione dal Vietnam verso gli Stati Uniti. Questa comprendeva sia i figli di soldati americani e giovani donne sudvietnamite sia i rifugiati vietnamiti, che scapparono subito dopo la presa del potere da parte dei comunisti. Durante l'anno successivo, più di un milione di queste persone arrivò negli Stati Uniti[250]. Nel 1982 iniziò la costruzione del memoriale dei Veterani del Vietnam (conosciuto anche come "il muro"), situato al Mall di Washington adiacente al Lincoln Memorial. Si tratta di una lastra di pietra nera lucida parzialmente interrata su un pendio su cui sono incisi i nomi di tutti i caduti della guerra; semplice e austera, simboleggia la tragedia del Vietnam[251].

Aver prestato servizio nella guerra, anche se inizialmente impopolare, divenne presto fonte di rispetto, anche se il conflitto in sé rimane oggetto di un'ampia variabilità di opinioni; durante e dopo il conflitto il cinema statunitense produsse un gran numero di film sulla guerra del Vietnam, e molti politici statunitensi sfruttarono gli anni di servizio nelle loro campagne elettorali, come fece John McCain, ex prigioniero di guerra del Vietnam, nella sua corsa al Senato, mentre il fatto che i presidenti Bill Clinton e George W. Bush avessero evitato il servizio militare in Vietnam giocò a sfavore degli stessi durante le rispettive campagne elettorali. Dopo essere entrato in carica, Bill Clinton annunciò il desiderio di normalizzare le relazioni con il Vietnam. La sua amministrazione tolse le sanzioni economiche alla nazione nel 1994 e nel maggio del 1995 i due stati riallacciarono le relazioni diplomatiche, con gli Stati Uniti che aprirono un'ambasciata sul suolo vietnamita per la prima volta dal 1975.

I risarcimenti

Sono stati erogati anche aiuti economici per i rifugiati vietnamiti, i figli dei soldati statunitensi nati in Vietnam e i colpiti dall'agente Orange[252]. I reduci che parteciparono alla guerra in Vietnam ricettevero un risarcimento di 180 milioni di dollari nel 1984. La Croce Rossa vietnamita ha registrato circa un milione di persone disabili a seguito della esposizione all'agente Orange e, secondo alcune stime, si calcolano circa 2 milioni di persone affette da problemi di salute derivanti dalle tossine irrorate sul territorio. Al 2015 non era ancora stato stanziato un risarcimento per i danni di guerra ai contadini cambogiani, laotiani e vietnamiti[253].

Le cause della sconfitta statunitense

Il monumento vietnamita a Biên Hòa in ricordo della vittoria nella guerra del Vietnam
Un visitatore al Vietnam Veterans Memorial a Washington

La guerra del Vietnam ebbe importanti ripercussioni a lungo termine sulla società statunitense, sulla sua politica estera e sugli equilibri geopolitici mondiali. In primo luogo, la guerra fu la prima significativa sconfitta militare degli Stati Uniti. Le cause della sconfitta vanno ricercate fondamentalmente:

  • nella capacità di resistere alla pressione militare statunitense da parte della dirigenza e della popolazione del Vietnam del Nord[102];
  • nella combattività e solidità dei Viet Cong e dei soldati regolari nordvietnamiti, in grado di infliggere continue e crescenti perdite al nemico[254];
  • nel fallimento dei piani di pacificazione e sviluppo economico nel Vietnam del Sud (conseguenza anche dell'inefficienza e della corruzione della dirigenza politica filostatunitense)[255];
  • nell'abile uso, da parte della dirigenza nordvietnamita, del nazionalismo per sostenere il morale e continuare una guerra che poteva apparire senza fine e persa in partenza contro una superpotenza straniera[256];
  • nelle ripercussioni interne alla società americana provocate dal falso ottimismo di generali e politici, dalle ingenti perdite e dalle incerte prospettive della lotta[257];
  • negli errori di strategia e di tattica dei comandi militari, in parte conseguenza anche di esigenze di politica internazionale[258]; in particolare il colonnello statunitense Harry G. Summers ha affermato che le truppe americane, invece di esaurirsi nelle costose, logoranti e inefficaci operazioni di "ricerca e distruzione", avrebbero dovuto penetrare fin dal 1965 nella zona smilitarizzata e quindi avanzare in Laos fino al confine thailandese sul delta del fiume Mekong, bloccando in questo modo le vie di infiltrazione delle formazioni nord-vietnamite[259].
  • Il Generale Herbert Norman Schwarzkopf, veterano con due lunghe esperienze in Vietnam e vincitore a Grenada nel 1983 e della Prima Guerra del Golfo nel 1991, ritiene che le cause della sconfitta americana nel Vietnam siano da attribuirsi alla mancata promessa di aiutare i sudvietnamiti quando l'America aveva loro fornito armi ed equipaggiamento affidando la guerra nelle loro mani, ma dopo le dimissioni di Nixon il Congresso aveva tagliato il flusso delle munizioni e dei pezzi di ricambio condannando in tal modo i sudvietnamiti alla sconfitta.[260]

Vittime

Caduti Viet Cong

Stimare il numero di vittime del conflitto è risultato difficile, poiché le registrazioni ufficiali sono inesistenti per mancanza di anagrafe civile; inoltre ancora oggi si verificano tragici incidenti a causa degli innumerevoli ordigni inesplosi, in particolare dalle bombe a grappolo. Gli effetti sull'ambiente prodotti dagli agenti chimici (come l'agente arancio) e i grandi problemi sociali causati da una nazione devastata hanno sicuramente prodotto la perdita di ulteriori vite.

La più bassa stima delle vittime, basata su dichiarazioni nordvietnamite che vengono ora scartate dal Vietnam stesso, è di circa 1,5 milioni di vietnamiti uccisi. Il Vietnam ha rilasciato delle cifre il 3 aprile 1995, che parlano di un milione di combattenti vietnamiti e 2 milioni di civili uccisi durante la guerra[261][262], ma si tratta di una stima, almeno per quanto riguarda i civili, morti anche per malattie, fame e persecuzioni politiche attuate dal Regime del Nord (l'attuale Vietnam). Da parte degli americani, 58226 vennero uccisi in azione o classificati come dispersi in combattimento. Altri 303704 soldati vennero feriti[263]. L'esercito degli Stati Uniti ebbe la maggior parte delle perdite, con 38216 morti, il corpo dei Marines soffrì 14840 morti, la marina 2556 morti, mentre l'aviazione subì le perdite più basse in termini di percentuale sulle forze impiegate, con 2585 morti[264].

Anche gli alleati degli Stati Uniti subirono perdite. La Corea del Sud perse oltre 5 000 uomini con 10 000 feriti. L'Australia perse oltre 500 uomini ed ebbe 2400 feriti su un totale di 47 000 soldati dispiegati in Vietnam. La Nuova Zelanda ebbe 38 morti e 187 feriti. La Thailandia ebbe 351 vittime e le Filippine 9. Anche se il Canada non fu coinvolto nella guerra, decine di migliaia di canadesi si arruolarono nell'esercito statunitense e prestarono servizio in Vietnam: tra i morti statunitensi ci sono almeno 56 cittadini canadesi.

Soldato bambino sud-vietnamita armato di lanciagranate di costruzione statunitense

Sia durante sia dopo la guerra si ebbero significative violazioni dei diritti umani. Sia i nordvietnamiti sia i sudvietnamiti detenevano molti prigionieri politici, molti dei quali vennero uccisi o torturati. Dopo la guerra le azioni intraprese dai vincitori in Vietnam, compresi plotoni d'esecuzione, campi di concentramento e "rieducazione" portarono all'esodo di centinaia di migliaia di vietnamiti[265]: molti di questi rifugiati scapparono con barche, facendo nascere la locuzione boat people[266]. Queste persone emigrarono verso Hong Kong, Francia, Stati Uniti, Canada e altre nazioni creando comunità di espatriati di dimensioni considerevoli, soprattutto negli USA.

Tra le molte vittime della guerra ci furono anche le persone che vivevano nella confinante Cambogia. I Khmer rossi, nazionalisti e comunisti, presero il potere in conseguenza della guerra e continuarono a massacrare i loro oppositori (reali o presunti). Circa 1,7 milioni di cambogiani vennero assassinati o caddero vittime dell'inedia e delle malattie, prima che il regime venisse rovesciato dalle forze vietnamite nel 1979[267]. Molti effetti dell'animosità e del rancore generati durante la guerra del Vietnam sono sentiti ancora oggi, tra coloro che vissero in quell'epoca tragica per la storia degli Stati Uniti e dell'Indocina.

I costi del conflitto

I costi della guerra[268] per i contribuenti statunitensi furono:

  • 1965 -1972: 132,7 miliardi di dollari statunitensi, già preventivati nel costo per la guerra in Vietnam;
  • 1953 -1975: 28,5 miliardi di dollari di aiuti militari ed economici al governo di Saigon, 2,4 miliardi di dollari di aiuti militari ed economici al governo laotiano e 2,2 miliardi di dollari di aiuti militari ed economici al governo cambogiano;
  • 1949 -1952: 0,3 miliardi di dollari di aiuti per lo sforzo della guerra al governo francese.

Globalmente il costo diretto della guerra, secondo un calcolo ufficiale, ammontò a 165 miliardi di dollari.[

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